di Carlo CAVALLO
Avvocato in Torino
Articolo comparso sulla rivista BancaFinanza (giugno 2013)
L’art. 150 del codice penale stabilisce che la morte del reo estingue il reato e, di conseguenza, le sanzioni.
Una questione analoga è stata recentemente sollevata con riferimento alla sorte delle sanzioni irrogate – ai sensi del d. lgs. 231/2001 – ad una società dichiarata successivamente fallita.
Il Giudice per l’udienza preliminare di Roma, nel caso della MAGESTIC INTERNATIONAL s. a. amministrata da Stefano Ricucci, società imputata di vari illeciti previsti dal d. lgs. 231/2001, ha ritenuto che il fallimento della società sia in qualche modo assimilabile alla morte del reo, posto che determina uno stato di inattività equiparabile, quanto agli effetti, alla morte della persona fisica. Ne deriva che, ad avviso del predetto Giudice, l’illecito sarebbe estinto, come prevede l’art. 150 c. p., e nessuna sanzione sarebbe irrogabile
Avverso tale sentenza ha interposto ricorso la Procura della Repubblica di Roma e conseguentemente la vicenda è stata decisa dalla quinta sezione Corte di Cassazione con la sentenza n. 44824/12.
La predetta pronunzia ha stabilito il principio secondo cui: “il fallimento della società non è equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l’estinzione della sanzione amministrativa prevista dal decreto- legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.
A tale conclusione la Corte è arrivata attraverso le qui seguenti considerazioni:
- a) caratteristica della morte fisiologica di un soggetto fisico è la cessazione definitiva ed irreversibile di tutte le funzioni vitali ad esso connesse; in questa situazione la pena non sarebbe eseguibile e non avrebbe comunque alcun senso sanzionare un soggetto che non esiste più. Nel fallimento, invece, non solo non vi è cessazione formale dell’ente né sospensione completa di ogni attività, ma a ben vedere si viene a creare una situazione non definitiva e di regresso (nel senso che è sempre possibile – teoricamente – un ritorno dell’impresa alla sua attività). Una società fortemente indebitata ed in stato di pesante dissesto, scrive la Corte, può paragonarsi ad un malato grave, la cui morte è altamente probabile, ma non certa nel se e nel quando. E fino al momento della morte effettiva del soggetto non è possibile dichiarare l’estinzione del reato solo perché il decesso è, in un futuro non lontano, altamente probabile;
- b) se da un lato è vero che, una volta fallita la società, la sanzione pecuniaria che consegue sempre all’affermazione di responsabilità non è più esigibile, è altrettanto vero che tale sanzione ha natura di credito, sicché lo Stato è legittimato al recupero dell’importo di natura economica mediante la insinuazione al passivo. Si tratta, peraltro, di credito assistito da privilegio, la cui funzione pratica sarebbe assai limitata, osserva la Corte, se non potesse essere azionato in caso di fallimento della società;
- c) a favore della equiparazione del fallimento alla morte del reo è stato osservato che nel d. lgs. 231/2001 è chiaramente delineato l’obbligo di pagare la sanzione anche in caso di trasformazioni societarie quali la scissione o la fusione, ma nulla si dice per l’ipotesi di fallimento, paragonabile anch’esso ad una trasformazione societaria: ciò consentirebbe di argomentare che per il fallimento dovrebbe essere applicabile la disciplina prevista per la morte del reo dal citato art. 150 c. p.. Tale ragionamento viene ritenuto errato dalla Corte in quanto, si osserva, a seguito del fallimento la società non cambia affatto, ma viene esclusivamente sottoposta a una liquidazione di tipo concorsuale ad opera di un pubblico ufficiale e sotto il controllo dell’autorità giudiziaria;
- d) altra considerazione respinta dalla Corte riguarda la possibilità di immaginare una sorta di successione tra società e fallimento: contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, il fallimento non determina alcun fenomeno successorio, essendo solo una procedura che assume la gestione liquidatoria dell’ente per il tempo strettamente necessario alla soddisfazione concursuale dei creditori. Perciò, scrive la Corte, supporre che si verifichi una successione dalla società alla curatela nella titolarità di un debito – come il pagamento della sanzione ex d. lgs. 231/2001 – è semplicemente errato.
In conclusione: tutti gli interventi giurisprudenziali relativi alla materia della responsabilità amministrativa degli enti hanno rimarcato sempre più l’autonomia di tale responsabilità rispetto a quella degli autori dei reati, sottolineando la stringente necessità di adottare un modello organizzativo per non incorrere in pericolose e pesanti conseguenze sanzionatorie in capo agli enti medesimi.