di Avvocato Carlo Cavallo
Articolo comparso sulla rivista BancaFinanza (marzo 2016).
In una recente sentenza, la n. 4064 del 29 gennaio del 2016 la Suprema Corte di Cassazione ha escluso che il sequestro disposto nei confronti di una società, in seguito ad una fusione per incorporazione, si estenda automaticamente alla società incorporante.
La vicenda.
In data 18.05.2012 dal Giudice per le indagini preliminari di Bologna veniva disposto, presso il Banco Emiliano Romagnolo, il sequestro preventivo della somma di Euro 1.779.765,00, sospetto profitto di vari reati.
Dopo alterne vicende il sequestro veniva definitivamente confermato anche in Cassazione.
Il 30 novembre 2012 il Banco Emiliano Romagnolo s.p.a. veniva incorporato con fusione in Intesa San Paolo s.p.a.; quest’ultima, il 24.8.2014, formulava istanza di revoca del sequestro preventivo, affermando di essere estranea – cioè terza – rispetto al procedimento penale in corso per vari reati tra cui quello di abuso di mercato, ascrivibile solamente al Banco Emiliano Romagnolo e sostenendo, altresì, di non aver tratto alcun vantaggio dalla vicenda, posto che secondo l’istituto bancario nulla era rimasto degli eventuali profitti illeciti nel patrimonio del Banco Emiliano e dunque nulla era stato acquisito da Intesa.
La richiesta di revoca veniva rigettata prima dal Giudice per le indagini preliminari e poi dal Tribunale di Bologna. La questione approdava, a questo punto, in Cassazione.
La sentenza n. 4064/2016.
La Quinta sezione penale della Cassazione non ha escluso l’estensione del vincolo cautelare sul patrimonio del terzo, ma ha chiarito il percorso che il Giudice di merito deve seguire.
Facendo applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9/1999 in materia di confisca dei beni prevista dall’art. 19 della normativa sulla responsabilità penale/amministrativa degli enti – d. lgs. 231/2001 –, la Corte ha precisato che soggetto “terzo” deve intendersi chi risulta estraneo al reato nel senso, beninteso, di non aver partecipato alla sua commissione e, inoltre, di non aver ricavato da esso alcun vantaggio od utilità.
A tale requisito oggettivo, poi, deve aggiungersi la connotazione soggettiva della “buona fede” del terzo, intesa, scrive la Corte, come «non conoscibilità, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato».
Una “buona fede penale”, in altre parole, che si distingue nettamente da quella civilistica — che non include anche i profili colposi —, una buona fede tale per cui “la colposa – cioè involontaria – inosservanza di doverose regole di cautela esclude che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare”.
Per poter disporre il vincolo, poi, la Corte precisa che sul Giudice che dispone il sequestro incombe l’onere di accertare quale sia la titolarità dei beni e quali le modalità di acquisizione da parte dei terzi, “non potendo apporre il vincolo su beni acquisiti dai terzi in buona fede”. Il terzo, a sua volta, ha l’obbligo di allegare le circostanze che concorrono ad integrare le condizioni di appartenenza del bene e l’estraneità al reato.
Secondo la Corte, pertanto, deve escludersi che la confisca (ed il sequestro preventivo ad essa finalizzato) disposta nei confronti della società che ha partecipato alla fusione per incorporazione, si estenda automaticamente alla società incorporante, solo sulla base della regola, secondo cui “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione” (art. 2504 bis cod. civ.).
Tale regola, infatti, – che, peraltro, trova corrispondenza nella previsione del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 29, secondo cui “nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione” – va coordinata con i richiamati principi volti a tutelare la posizione del terzo di buona fede, estraneo al reato, perchè, se così non fosse, la società incorporante o quella risultante dalla fusione si troverebbero esposte alle conseguenze di natura penale di reati commessi da altri, unicamente in base alla posizione formale di soggetto partecipante alla fusione.
Alla luce di questo ragionamento, la Quinta sezione penale della Cassazione ha disposto l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale bolognese ed un rinvio al Giudice competente per verificare se, attraverso la fusione per incorporazione, “Banca Intesa” abbia o meno conseguito un vantaggio o un’altra apprezzabile utilità, circostanza che non può essere esclusa solo perchè, come rappresentato dall’istituto di credito, già prima della fusione il Banco Emiliano Romagnolo non aveva la disponibilità dei profitti illecitiper totale assenza di liquidità.