di Carlo CAVALLO
Avvocato in Torino
SEMINARIO DI STUDIO ED AGGIORNAMENTO PER LA PROFESSIONE DEI COMMERCIALISTI – MONTE-CARLO, 27 SETTEMBRE 2013.
“LA RIFORMA DEI REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: IL PUNTO DI VISTA DELLA DIFESA”
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INDICE: 1. Introduzione. – 2. L’informativa antimafia e la “White List”. – 3. Le modifiche al codice penale: A) Il delitto di concussione – B) I delitti di corruzione: premessa. – B. 1) Il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione. – B.2) Artt. 319 ss. – C) Il delitto di induzione indebita. – 4) La tutela del denunciante.
1. Introduzione
Dopo mesi di discussioni, trattative e polemiche, la legge sulla corruzione è stata definitivamente approvata dal Parlamento.
Con 480 voti favorevoli, 19 contrari e 25 astenuti, la Camera dei Deputati nella seduta del 31 ottobre 2012 ha accordato la fiducia al Governo Monti, approvando la legge n. 190 del 2012 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 13 novembre scorso.
Per ciò che concerne la prevenzione, la legge istituisce l’Autorità Nazionale Anticorruzione e dispone in merito al piano nazionale anticorruzione; conferisce, altresì, deleghe al Governo in materia di trasparenza amministrativa, incompatibilità degli incarichi dirigenziali, incandidabilità conseguente a sentenze definitive di condanna ed, infine, interviene sul collocamento fuori ruolo dei
magistrati.
In merito alle misure repressive, prevede numerose modifiche al codice penale:
1. aumenta il minimo di pena precedentemente stabilito per il reato di peculato, portato da tre a quattro anni di reclusione;
2. ridefinisce il reato di concussione, introducendo la fattispecie di Induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c. p.[1]) e limitando la concussione per costrizione (art. 317 c. p.[2]) al solo pubblico ufficiale;
3. distingue la corruzione propria[3], relativa al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, dalla corruzione impropria[4], che invece riguarda il caso diverso in cui il pubblico ufficiale riceve indebitamente o accetta la promessa, per sè o per un terzo, di denaro o altra utilità in relazione all’esercizio della sua funzione o dei suoi poteri;
4. punisce la corruzione tra privati [5] con la reclusione da uno a tre anni;
5. introduce un nuovo reato il traffico di influenze illecite[6] (art. 346 bis c. p.), prevedendo una pena da uno a tre anni di reclusione.
L’intervento legislativo intende contrastare efficacemente la corruzione, puntando ad uniformare l’ordinamento giuridico italiano agli strumenti sovranazionali di contrasto alla corruzione già ratificati dal nostro Paese (come la Convezione ONU di Merida e la Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo).
E’ stato altresì tenuto conto delle raccomandazioni formulate all’Italia dai gruppi di lavoro in seno all’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e al Consiglio d’Europa che monitorano la conformità agli standards internazionali della normativa interna di contrasto alla corruzione.
Le motivazioni per cui ci si è decisi alla riforma sono essenzialmente due:
1. l’inadeguatezza dell’attuale sistema normativo a contrastare il fenomeno corruttivo nella sua interezza data la recente ingente diffusione di tale tipologia di illecito;
2. la necessità di adeguare il nostro sistema giuridico agli standars internazionali.
Inoltre hanno pesato i danni di ordine economico che la corruzione arreca alla collettività e il senso di ingiustizia che essa ingenera tra i cittadini onesti.
Infine la riforma ha cercato di rispondere alla necessità di rendere corretto e trasparente il comportamento della classe dirigente italiana.
Questi gli obbiettivi della riforma.
Solo il tempo potrà davvero confermare il loro raggiungimento.
La legge c.d. anticorruzione nella sua composizione può agevolmente suddividersi in due parti: l’una avente ad oggetto disposizioni che mirano a prevenire il fenomeno corruttivo già alla sua origine; l’altra avente ad oggetto disposizioni che prevedono misure repressive applicabili ad illecito già consumato.
Con riguardo a questi due momenti si svolgeranno di seguito alcune osservazioni che, tenuto conto dello specifico fine del presente intervento – aggiornare i professionisti che esercitano l’attività di commercialista – saranno indirizzate a specifici punti della legge in questione.
2. L’informativa antimafia e la “White List” (L. 190/2012)
È da tempo che il legislatore italiano prova a consolidare nel nostro ordinamento un nuovo istituto, quello della cosiddetta “white list”: si tratta, cioè, dell’elenco delle imprese che, aspirando ad avere, direttamente od indirettamente (ossia tramite subappalto) rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, vengono sottoposte ad apposite verifiche non risultando soggette ad infiltrazione mafiosa.
La finalità dell’istituto è di fatto la medesima prevista, per le grandi opere, dall’art. 176 c. 3, lett. e) del Codice degli appalti, il quale impone l’adozione di protocolli di legalità attuativi delle Linee Guida – risalenti al 2005 – emanate dal Comitato di alta sorveglianza sulle grandi opere (previsto dall’art. 180 del citato Codice). In queste Linee, partendo dalla considerazione che le maggiori insidie d’infiltrazione criminale si annidano nella fase “a valle” e, in particolare, nell’affidamento dei lavori a mezzo degli strumenti del cottimo e del sub-appalto, si afferma la necessità di sottoporre i sub-affidamenti successivi all’aggiudicazione principale – e che sorgono sul fondamento di questa – a forme più stringenti di controllo preventivo, mediante la sottoposizione dei sub-contratti alle verifiche disposte in attuazione dell’art. 10 del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (oggi sostituto dal 13 febbraio 2013 dall’art. 91 d. lgs. 159/2011[7]), anche quando il relativo importo sia inferiore alla soglia di valore fissata dallo stesso art. 10 lett. c), oggi sostituto dall’art. 91 d. lgs. 159/2011 lett. c), che fissa un limite pari a 150.000 euro.
Con la legge 6 novembre 2012, n. 190 è stato radicalmente modificato – per l’esercizio di attività in determinate attività imprenditoriali a maggiore rischio di infiltrazione mafiosa – il precedente sistema relativo all’informazione antimafia. Ciò attraverso l’istituzione di appositi elenchi, le white list appunto, l’iscrizione ai quali dovrebbe soddisfare i requisiti per l’informazione antimafia.
In particolare la disciplina è contenuta nell’art. 1 commi 52 – 56 legge 190/2012 i quali prevedono l’istituzione, presso la prefettura della provincia in cui l’impresa ha sede, di una apposita lista dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa ed operanti nei settori di cui all’art. 53[8]. L’iscrizione in tali elenchi deve soddisfare i requisiti dell’informazione antimafia necessaria per l’esercizio della relativa attività.
La prefettura effettua, infatti, verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei suddetti rischi e, in caso di esito negativo di questi controlli, dispone la cancellazione dell’impresa dall’elenco.
Il Regolamento d.p.c.m. 19/4/2013 – CFR. ALLEGATO – adottato dal Presidente del Consiglio su proposta dei Ministri per la pubblica amministrazione e la semplificazione, dell’interno, della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e dello sviluppo economico detta le disposizioni concrete per l’individuazione delle modalità di l’istituzione e di aggiornamento dell’elenco di cui al comma 52, nonché per l’attività di verifica.
La “documentazione antimafia” (che sostituisce le c.d. “informative prefettizie”) necessaria per effettuare le verifiche preliminari per la redazione e l’inserimento nella white list é quella prevista dall’art. 84 del c.d. Codice Antimafia (d.lgs. 159/11). Essa è costituita:
a) dalla “comunicazione antimafia“, che attesta la sussistenza di una causa di decadenza, sospensione o divieto di cui all’articolo 67 e riguarda in particolare i soggetti sottoposti ad una misura di prevenzione antimafia;
b) dall’”informazione antimafia“, che attesta, oltre a quanto previsto dalla “comunicazione antimafia”, anche eventuali ipotesi legate alla permeabilità mafiosa delle imprese o delle società soggette a verifica.
L’accertamento del pericolo di condizionamento mafioso determina l’interdizione dell’impresa a contrarre con la P.A. e quindi, la impossibilità di iscrizione nella “White List“. In pratica la Prefettura competente nega l’iscrizione.
Per le imprese che saranno iscritte alla White List, e che saranno ritenute, quindi, “non soggette a rischio di infiltrazione mafiosa” la legge semplifica il percorso previsto dalla vigente normativa nel senso che le stesse non dovranno più attendere la singola verifica da parte della Prefettura per dar corso a tutte le attività conseguenziali alla sottoscrizione di una appalto pubblico: basterà semplicemente essere iscritte alla White List. Si tratta di una novità di estremo rilievo pratico se si considera che oggi la verifica comporta tempi lunghissimi e rischi elevati per le imprese, le quali in alcuni casi dopo avere sottoscritto i contratti di appalto, proceduto alla consegna dei lavori, installato i cantieri, assunto operai, acquistato mezzi, possono vedersi recapitare – anche dopo diversi mesi – una informativa che determina la risoluzione del contratto motivata da cause connesse alla prevenzione del fenomeno mafioso.
Il sistema sembra efficace sulla carta.
Vedremo se esso permetterà davvero una accelerazione dei lavori o darà origine a situazioni di grave conflittualità tra imprese e Prefettura, determinate da informazioni incomplete, intempestive, inesatte o non aggiornate.
Il rischio esiste.
Anche perché, come spesso accade in Italia, la normativa in esame va coordinata con altre vigenti, il che si presenta tutt’altro che semplice.
Occorre rammentare infatti quanto previsto dall’art. 4 comma 13 del decreto sviluppo (d.l. 70/2011) secondo il quale per l’efficacia dei controlli antimafia nei subappalti e subcontratti successivi ai contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, presso ogni prefettura é istituito l’elenco di fornitori e prestatori di servizi non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, ai quali possono rivolgersi gli esecutori dei lavori, servizi e forniture. La prefettura effettua verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei suddetti rischi e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell’impresa dall’elenco.
Negli stessi termini merita analoga valutazione il decreto Antitrust (legge 24 marzo 2012 n. 27, recante Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività) il cui art. 5 ter prevede che, al fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali, all’Autorità’ garante della concorrenza e del mercato é attribuito il compito di segnalare al Parlamento le modifiche normative necessarie, nonché di procedere alla elaborazione di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale di cui tener conto in sede di concessione di finanziamenti pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni ed in sede di accesso al credito bancario.
Il Regolamento di attuazione dell’art. 5 ter prevede espressamente che l’iscrizione ad una white list sia condizione per l’incremento del punteggio base per l’attribuzione del rating. L’elenco delle imprese gestito dalla normativa antitrust privilegia inoltre quelle imprese che si dotino di un codice etico (che non sia solo un concentrato di parole, ma una serie di principi concreti, seriamente applicati), abbiano organismi di controllo interno quali quelli previsti dal d.lgs. 231/2001, ovvero aderiscano ai protocolli di legalità.
Osservo che pur non prevedendo il complesso normativo in esame un vero e proprio obbligo di adozione, da parte delle imprese che mirano ad essere inserite nelle white list, di un modello di organizzazione ex d.lgs. 231/2001, dotarsi di modelli di comportamento soddisfa la gran parte requisiti per ottenere un rating positivo.
E’, invece, condizione per l’ottenimento del punteggio base l’assenza di condanne e provvedimenti cautelari per illeciti ex d. lgs. 231/01 e, quanto alle persone fisiche, assenza di condanne per i reati che impegnano la responsabilità dell’Ente ai sensi del d.lgs. 231/01.
In tale contesto si inserisce, infine, anche la previsione normativa di cui all’art. 3 del Codice delle Imprese (L. 180/11) in forza del quale le imprese che non sottoscrivono il Codice Etico da un lato, non possono far parte delle Associazioni di Categoria a cui avrebbero, invece, diritto di iscriversi e dall’altro non possono usufruire di una serie di benefit legati alla velocizzazione di alcune procedure amministrative, ivi inclusa la verifica antimafia.
3. Le modifiche al codice penale:
A) Il delitto di concussione
Art. 317 c. p.: «(Concussione) Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici anni».
1. Premessa. – Nell’ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione la concussione è il reato punito più gravemente: lo era già nella versione originaria del codice e tale resta anche a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n. 190, che prevede la reclusione da sei a dodici anni.
Nel testo del 1930, questo delitto era formulato con esclusivo riferimento al pubblico ufficiale, sul presupposto che l’incaricato di un pubblico servizio non disponesse di poteri in grado di costringere il privato a dare o promettere indebitamente. La progressiva espansione dei pubblici servizi aveva però reso insostenibile una così netta differenziazione, sicché la l. 26 aprile 1990, n. 86, aveva esteso il reato all’incaricato di un pubblico servizio, modificando contestualmente l’espressione «abuso delle funzioni» in «abuso dei poteri». La l. n. 190 del 2012 ha ritenuto però di tornare all’antico, eliminando dall’art. 317 la figura dell’incaricato di un pubblico servizio, ma mantenendo nel testo la dizione «abuso dei poteri».
Inoltre, mentre originariamente il delitto di concussione verteva sul fatto del pubblico agente che costringe o induce la vittima alla dazione o promessa indebita, la l. n. 190 del 2012 ha eliminato l’ipotesi dell’induzione, che è passata a caratterizzare il nuovo art. 319-quater c.p.
2. Il bene giuridico. – Con la concussione si vuole tutelare il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica amministrazione e cioè l’esigenza che la condotta dei pubblici funzionari sia indirizzata alla realizzazione degli interessi e delle finalità proprie della Pubblica amministrazione, ispirandosi a principi di correttezza in assenza di vantaggi personali.
Il delitto si caratterizza per la violenza esercitata sul privato e la lesione della sua libertà di autodeterminazione: proprio l’offesa di tale interesse giustifica la severità della pena. Ne deriva che la concussione tutela beni di natura pubblicistica e privatistica.
3. I soggetti attivi. – Come già osservato, la l. n. 190 del 2012 ha eliminato la previsione dell’incaricato di un pubblico servizio.
Tale scelta suscita forti perplessità a mio parere, alla luce non solo della validità ancora attuale delle ragioni che determinarono la soluzione contraria adottata con la l. n. 86 del 1990, ma anche perché l’esclusione dell’incaricato di un pubblico servizio ha un effetto paradossale: la costrizione da lui realizzata, infatti, configura il reato di estorsione, punito con una pena potenzialmente più elevata, sia nel minimo che nel massimo (ex artt. 629 e 61 n. 9 c.p.), di quella riservata al pubblico ufficiale[9]. La violazione dell’art. 3 Cost. appare, secondo me, innegabile alla luce del confronto tra le pene previste per la concussione e l’estorsione e considerato che per l’incaricato di pubblico servizio non esiste un’attenuante per i casi di particolare tenuità, come quella contenuta nell’art. 323-bis c.p. per la concussione del pubblico ufficiale.
4. La condotta: l’abuso dei poteri e della qualità;
La condotta consiste nella costrizione.
Il presupposto di essa è costituito dall’abuso della qualità o dei poteri.
Si ritiene comunemente che la distinzione tra abuso della qualità e dei poteri debba operarsi alla luce della competenza dell’agente, necessaria per l’abuso dei poteri e non anche per l’abuso della qualità. Più specificamente, l’abuso dei poteri consiste in un esercizio distorto delle attribuzioni dell’ufficio: tale forma di abuso si manifesta come una strumentalizzazione dei poteri finalizzata alla costrizione della vittima. In questo senso si spiega il ricorrente orientamento giurisprudenziale che alla concussione associa il “timore del potere pubblico” (metus publicae potestatis) del privato, il quale dà o promette l’indebito in conseguenza della coercizione di cui è destinatario.
Un problema ulteriore – sul quale si tornerà – è se possa configurarsi un abuso di poteri anche quando il pubblico agente strumentalizza un’attività lecita e per lui doverosa ottenendo un compenso per l’omissione di essa (ad es., avendo accertato nell’esercizio delle proprie funzioni irregolarità fiscali a carico del contribuente, prospetta la possibilità di un pagamento per evitare la denuncia).
L’abuso della qualità ricorre in ogni strumentalizzazione della qualifica soggettiva in cui sia implicita la possibilità di un utilizzo dei poteri, così da indurre nel privato la rappresentazione della necessità di assecondare la richiesta del pubblico agente.
L’abuso deve trovare il proprio limite nella verosimiglianza del danno paventato, cioè nella sua credibilità.
5. (segue) la costrizione. – La costrizione consiste nella prospettazione univoca di un male ovvero in una violenza fisica, qualora il soggetto attivo sia investito di poteri di coercizione sulla persona e a questa residui una libertà di scelta. In sostanza, esclusi i casi di coazione assoluta – che configurano altri reati –, si richiede una coazione relativa: ciò che viene confermato dai concetti di dazione e promessa, i quali suppongono una libertà, per quanto limitata, dell’agente.
Conviene insistere su questo punto. L’essenza della concussione è rappresentato dalla costrizione, cioè da una violenza o minaccia che, saldandosi all’abuso funzionale, fa soccombere la vittima dinanzi al pubblico potere: occorre dunque escludere dall’art. 317 c.p. situazioni di più blanda pressione psicologica, non riconducibili alla costrizione.
Una volta accertata la ricorrenza di essa, la dazione o la promessa sono indebite.
In questa affermazione si annidano due differenti problemi.
Il primo è costituito dalla configurabilità dell’art. 317 c.p. quando il pubblico ufficiale abusa della qualità o dei poteri costringendo il privato ad adempiere una propria obbligazione: secondo parte della dottrina la concussione in tal caso va esclusa in considerazione della natura della prestazione, che non è indebita, ma dovuta dal privato, sicchè l’abuso del pubblico ufficiale si riduce ad una irrilevante modalità della condotta. Secondo una tesi diversa, invece, una volta verificatosi l’abuso del pubblico ufficiale, che rappresenta il fulcro della fattispecie, la concussione sussiste.
Vedremo quali soluzioni verranno adottate in pratica.
Il secondo problema è questo. Se la violenza implica l’uso della forza fisica e la minaccia consiste in una pressione psichica, nell’art. 317 c.p. – come detto – esse si risolvono in una costrizione relativa, tale che in capo alla vittima permane una possibilità di scelta tra il male prospettato e la dazione o promessa. Ora, la coazione relativa, specie se realizzata attraverso la minaccia, non ha una sua forma tipica: come dimostra l’elaborazione giurisprudenziale del reato di estorsione, la minaccia può essere diretta o indiretta, palese o larvata, reale o figurata, determinata o indeterminata e ammette anche una formulazione in termini di cortesia, quando l’invito alla dazione vale comunque a incutere nella controparte il timore di rischi e pericoli altrimenti inevitabili[10]. In questa situazione, direi, occorre riconoscere che la minaccia in grado di integrare la costrizione si caratterizza in base all’esito psicologico prodotto sulla vittima, che accede alla dazione o promessa al solo scopo di evitare il danno più grave rappresentato in alternativa dal pubblico agente.
Fermandosi all’essenziale: la separazione delle condotte di costrizione e induzione, introdotta dalla legge n. 190 del 2012, impone una distinzione tra le minacce costrittive e quelle che si limitano a incidere, senza piegarlo, sul processo motivazionale del destinatario. Gli effetti di tale distinzione sono assai rilevanti al momento della individuazione della concreta norma del codice penale violata e quindi della pena da irrogare: o quella della concussione o quella assai più mite dell’induzione indebita a dare o promettere utilità.
Alla luce delle considerazioni che precedono, secondo me, deve ritenersi definitivamente abbandonato l’orientamento giurisprudenziale che ravvisava l’art. 317 c.p. anche laddove l’abuso del pubblico agente consentiva al privato di evitare il compimento di atti legittimi e doverosi.
6. Il denaro o l’altra utilità; la nozione di terzo. – L’oggetto della prestazione da parte della vittima consiste nella dazione o promessa di denaro o altra utilità.
La dazione può realizzarsi sia attraverso la consegna materiale del bene, anche per interposta persona, sia con il fatto di lasciare nella disponibilità del pubblico agente il bene da lui precedentemente detenuto ad altro titolo. La promessa consiste nell’assunzione di un impegno a una prestazione futura, in qualsiasi forma manifestata. Mentre è irrilevante la riserva mentale di non adempiere, la condotta del privato che si decide alla promessa (o alla dazione) solo allo scopo di “incastrare” il concussore, acquisendo la prova del reato o consentendo all’autorità giudiziaria di acquisirla, dimostra che la costrizione posta in essere dal pubblico agente non ha conseguito lo scopo: il delitto è dunque integrato allo stadio del tentativo.
La dazione o promessa deve essere indebita, cioè non dovuta al pubblico agente nella sua qualità: in altre parole, deve necessariamente derivare dall’abuso, senza rinvenire la propria causa in un preesistente obbligo del privato verso la Pubblica amministrazione. Come osservato, il delitto di concussione è integrato anche quando la dazione o promessa costituisce adempimento di un’obbligazione nei confronti del pubblico agente.
Se la nozione di denaro non suscita problemi definitori, rispetto alla nozione di utilità va sottolineato come essa comprenda ogni vantaggio non solo patrimoniale ma anche personale per il pubblico agente e oggettivamente apprezzabile; ne deriva l’inserimento nel concetto di utilità anche delle prestazioni sessuali.
L’utilità deve essere data o promessa al pubblico ufficiale o a un terzo. La norma presume qui che il terzo funga da persona interposta o comunque si ponga sullo stesso piano del pubblico ufficiale, in quanto ne sia complice o sia a lui legato da vincoli affettivi o di solidarietà tali che il beneficio nei suoi confronti ridondi a vantaggio dello stesso pubblico ufficiale.
7. L’elemento psicologico e la consumazione. – Il delitto è punito a titolo di dolo generico: si richiede pertanto che il pubblico ufficiale sia consapevole di porre in essere una condotta costrittiva caratterizzata dall’abuso della qualità o dei poteri, volendo in tal modo ottenere la dazione o promessa indebita. L’esigenza di differenziare gli ambiti operativi dell’art. 317 e degli artt. 319 e 319-quater induce a richiedere una piena rappresentazione e volontà, nell’agente, della natura coercitiva della propria condotta, ciò che esclude rilevanza al dolo eventuale.
La prova di ciò non è facile.
Il reato si consuma nel momento della dazione o promessa.
In base ai principi generali, la dazione successiva alla promessa non determina uno spostamento del momento consumativo.
Un cenno conclusivo va dedicato alla pena che, fermo restando il limite massimo dei dodici anni di reclusione, registra un innalzamento del limite minimo da quattro a sei anni. La conseguente maggiore difficoltà di concedere il beneficio della sospensione condizionale e di convertire in temporanea l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 317-bis c.p. viene tuttavia ridimensionata attraverso l’elevato numero delle circostanze attenuanti applicabili (artt. 62 nn. 4 e 6, 62-bis e 323-bis c.p.), che ovviamente possono aggiungersi alla riduzione ex artt. 442 o 444 c.p.p.
B) I delitti di corruzione
Premessa
1. La corruzione consiste nella dazione o promessa di denaro o altra utilità da parte di un privato e nella corrispondente accettazione da parte di un pubblico agente (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio), come retribuzione di un esercizio della funzione, conforme o contrario ai doveri dell’ufficio, già verificatosi o ancora da svolgere.
Si distingue così tradizionalmente tra corruzione propria e impropria (a seconda che oggetto dell’accordo sia un atto rispettivamente contrario o conforme ai doveri dell’ufficio) e antecedente e susseguente (a seconda che la dazione o promessa preceda il compimento dell’atto di ufficio o, in assenza di un precedente accordo, faccia seguito ad esso). Un’ulteriore distinzione è poi quella tra corruzione attiva e passiva, che vale a designare la condotta del privato, il quale dà o promette l’utilità, ovvero la condotta del pubblico agente, il quale riceve la dazione o promessa.
Il legislatore italiano negli artt. 318 ss. ha descritto la corruzione del pubblico agente come il fatto di accettare la promessa o dazione dell’utilità, nell’art. 321 ha esteso le pene sancite dalle precedenti disposizioni a colui il quale dà o promette l’utilità e infine, nell’art. 322, ha regolato il tentativo di corruzione (unilaterale) del privato e del pubblico agente.
L’iniziativa unilaterale (offerta da parte del pubblico ufficiale, sollecitazione da parte del privato), di per sé non punibile in base alla combinazione degli artt. 56 e 318 ss. c.p., trova espresso riconoscimento nell’art. 322 – Istigazione alla corruzione – secondo cui: “Chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 318, ridotta di un terzo.
Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell’articolo 319, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall’articolo 319”.
La riforma operata dalla l. 26 aprile 1990, n. 86, ha soppresso ogni differenziazione di pena, tra corruzione antecedente e susseguente, rispetto all’art. 319 (Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio), mentre il nuovo testo dell’art. 318 (Corruzione per l’esercizio della funzione) non reca più traccia della distinzione.
2. Il bene protetto dalle norme sulla corruzione viene riferito al buon andamento e all’imparzialità della Pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Fermo restando che i reati in esame si legano alla ricezione della promessa o dazione, senza comprendere l’effettivo compimento dell’atto di ufficio (che, ove di per sé integri un illecito, dà vita a un distinto e autonomo reato), conviene però distinguere tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione.
Nella corruzione propria antecedente (art. 319 c.p.), la tutela dei beni si svolge attraverso l’incriminazione del pericolo rappresentato dall’accordo corruttivo; nella corruzione susseguente, la già avvenuta esecuzione dell’atto implica una lesione di quei beni, il cui danno viene però aggravato attraverso la retribuzione.
Nella corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.), alla violazione del dovere di non venalità che incombe sui pubblici funzionari si affianca un pericolo per il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica amministrazione, riferito alla possibilità che la relazione privilegiata instauratasi tra le parti del rapporto possa nel tempo evolvere nella retribuzione di atti rientranti nel paradigma dell’art. 319 c.p., cioè contrario ai doveri d’ufficio .
Oltre il discredito della Pubblica amministrazione nei suoi rapporti con i cittadini, i quali avvertono la disponibilità dei pubblici agenti a subordinare le proprie decisioni alla corresponsione di utilità e conseguentemente si sentono indotti a cercarne i favori, il nocumento arrecato dai reati di corruzione propria emerge ancora più chiaramente attraverso gli effetti relativi agli enormi costi sopportati dalla collettività a causa dello sperpero delle pubbliche risorse, la cui gestione viene ispirata non dall’interesse generale ma dal tornaconto dei pubblici agenti e dei privati (la Corte dei Conti stima il danno cagionato dal fenomeno della corruzione in circa sessanta miliardi di euro annui!).
L’esigenza di una più efficace repressione della corruzione è alla base della riforma introdotta dalla l. n. 190 del 2012, che ha proceduto a un generalizzato incremento sanzionatorio, riferito agli artt. 318, 319 e 319-ter e a un’integrale riformulazione dell’art. 318.
3. È evidente che il reato di corruzione può configurarsi anche rispetto ad atti discrezionali: si tratta però, in tal caso, di stabilire il criterio alla cui stregua l’atto oggetto dell’accordo possa considerarsi conforme o contrario ai doveri dell’ufficio.
La soluzione oggi dominante si basa sul rispetto delle regole inerenti all’uso del potere discrezionale: l’atto deve considerarsi contrario ai doveri dell’ufficio ogni volta che il pubblico agente accetta la retribuzione per fare un uso distorto dei propri poteri o affinché rinunci a una valutazione comparativa degli interessi, indipendentemente dalla circostanza che l’atto poi emanato coincida con quello che sarebbe stato emesso in assenza della corruzione[11].
4. I reati di corruzione richiedono un dolo generico, consistente nella rappresentazione, da parte del pubblico agente e del privato, del significato della dazione o promessa e, dunque, della sua valenza retributiva in riferimento a un atto dell’ufficio.
La riserva mentale del pubblico agente di non compiere l’atto, nel caso di corruzione antecedente, ovvero del privato di non dare esecuzione alla promessa, è irrilevante, poiché il reato si consuma nel momento dell’accordo tra le parti.
5. I reati di corruzione si consumano nel momento in cui la dazione è ricevuta o la promessa è accettata dal pubblico agente: così dispone chiaramente la lettera della legge.
Fermandosi all’essenziale, la difficoltà di perseguire il fenomeno criminoso in esame ha indotto la giurisprudenza a ravvisare nelle fattispecie in esame uno schema principale e uno sussidiario: nel primo il momento consumativo coincide con la ricezione dell’utilità da parte del funzionario, nel secondo con l’accettazione della promessa, qualora essa non sia mantenuta. Da tale impostazione deriva che, nel caso di promessa seguita dalla corresponsione dell’utilità, si realizza una progressione nel reato che ne determina uno spostamento del momento consumativo, fino a farlo coincidere, in caso di pagamento frazionato nel tempo, con l’ultimo versamento[12].
B. 1) ll delitto di corruzione per l’esercizio della funzione
Art. 318 c. p.: «(Corruzione per l’esercizio della funzione). Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni».
1. La punibilità della corruzione susseguente. – Nella sua versione risalente al 1930, l’art. 318 puniva la corruzione impropria antecedente, prevedendo inoltre, con una sanzione più mite, la punibilità della corruzione susseguente (non richiamata invece dall’art. 321 nei confronti del privato). Inoltre, il fatto era incentrato sulla ricezione di una dazione o su una promessa nell’ipotesi antecedente ovvero della sola dazione nell’ipotesi susseguente.
Oggi, in conseguenza della riforma, l’art. 318 delinea semplicemente la ricezione o la promessa di un’utilità indebita «per l’esercizio» delle funzioni o dei poteri.
Il primo problema che si pone consiste dunque nello stabilire se la locuzione «per l’esercizio» determini una responsabilità per la corruzione non solo antecedente ma anche susseguente.
Secondo un orientamento che lega la dazione o la promessa dell’utilità a una condotta futura del soggetto qualificato, la corruzione susseguente sarebbe priva di ogni rilevanza penale; al contrario, per altra opinione, è indifferente che la dazione o promessa si riferisca a un’attività già svolta o ancora da svolgere.
Questa seconda interpretazione determina un inasprimento sanzionatorio caratterizzato inoltre dall’equiparazione della pena per la corruzione antecedente e susseguente (nettamente diversificate nel sistema previgente) e dalla punibilità del privato. A fronte del diffuso orientamento che, prima della riforma, auspicava la depenalizzazione della corruzione impropria susseguente già nei confronti del pubblico agente, un simile esito appare sorprendente.
Nondimeno, suscita perplessità l’idea che un intervento legislativo, volto a rendere maggiormente effettiva la repressione penale del fenomeno corruttivo, porti con sé la depenalizzazione della corruzione impropria susseguente.
Credo che comunque una posizione si debba prendere: la severità della cornice di pena (il cui limite minimo, per la corruzione impropria susseguente, passerebbe da quindici giorni a un anno), il riferimento alla promessa oltre che alla dazione e il rischio di attrarre all’interno della norma penale condotte del privato psicologicamente caratterizzate solo da gratitudine o riconoscenza inducono a ritenere la non punibilità della corruzione susseguente, così confinandola – ovviamente, solo a carico del pubblico agente – nell’ambito disciplinare.
2. La distinzione tra corruzione propria e corruzione per l’esercizio della funzione. – Penso che il mantenimento dell’autonoma previsione della corruzione propria vada condiviso, poiché mantiene ferma la maggiore gravità della retribuzione di atti contrari ai doveri di ufficio.
Il problema consiste nel verificare quale sia ora la linea di confine fra le due tipologie di corruzione: propria ed impropria.
Anteriormente alla riforma, una consolidata giurisprudenza affermava che, «ai fini della prova del delitto di corruzione propria, l’individuazione dell’attività amministrativa oggetto dell’accordo corruttivo può ben limitarsi al genere di atti da compiere, sicché tale elemento oggettivo deve ritenersi integrato allorché la condotta presa in considerazione dall’illecito rapporto tra privato e pubblico ufficiale sia individuabile anche genericamente, in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento di quest’ultimo, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli, non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus previsto »[13]. Talvolta la Corte di Cassazione si era spinta fino a ravvisare il delitto di cui all’art. 319 c.p. in presenza di «un generalizzato favoritismo del pubblico ufficiale nei confronti del privato, in attuazione di un accordo pressoché generalizzato a elargire favori per utilità frutto di sottintese promesse, indifferentemente se già determinate ex ante o determinabili ex post. E allora non può che ribadirsi che, ai fini della configurazione del reato di corruzione e in particolare di quella prevista dall’art. 319 c.p., non è necessario che l’accordo sia strumentale a uno specifico atto individuato ab origine, mentre è sufficiente un collegamento di tale accordo anche con un genus di atti individuabili o addirittura l’asservimento – più o meno sistematico – della funzione pubblica agli interessi del privato corruttore; situazione che si realizza nel caso in cui il privato promette o consegna al soggetto pubblico, che accetta, denaro o altra utilità, per assicurarsene, senza ulteriori specificazioni, i futuri favori»[14].
Al fine di verificare l’attuale fondatezza degli orientamenti riportati, occorre procedere con cautela.
Qualora la dazione o promessa di utilità avvenga in relazione ad atti contrari ai doveri di ufficio, determinati solo nel genus al momento dell’accordo, tale generica individuazione può rientrare nell’ambito dell’art. 319 c.p.: se l’oggetto del patto illecito consiste nella violazione dei doveri dell’ufficio esercitato dal pubblico ufficiale, la cui concretizzazione è rimessa al successivo svolgimento della procedura e agli ostacoli che dovessero eventualmente presentarsi, si configura una corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio. L’essenza del delitto in esame risiede nell’accordo: una volta che si accerti la sua proiezione su violazioni degli obblighi di ufficio, sufficientemente determinati seppure destinati a precisarsi alla luce delle successive occorrenze, il reato si è perfezionato e risulta pertanto indifferente che il programma concordato possa subire variazioni o specificazioni.
Una soluzione diversa va invece adottata per le condotte di asservimento della funzione pubblica agli interessi del privato, la cui dazione o promessa genericamente mira, senza ulteriori specificazioni, a futuri favori. Qui è da escludere la configurabilità dell’art. 319 c.p. per l’assenza di un accordo avente ad oggetto la compravendita di uno o più atti dell’ufficio, venendo piuttosto in rilievo la disponibilità del pubblico ufficiale a operare in favore del privato: ciò che appunto integra l’art. 318 c.p.
Per quanto possa apparire singolare che, in una riforma avente ad oggetto «la prevenzione e la repressione della corruzione», il risultato consista in un alleggerimento del trattamento sanzionatorio dei casi di asservimento (la cui sanzione scende dalla reclusione da due a cinque anni, stabilita dal previgente art. 319, alla reclusione da uno a cinque anni, prevista dall’art. 318 c.p.), può in ogni caso registrarsi il ritorno a un’interpretazione dell’art. 319 c.p. vincolata alla centralità dell’atto di ufficio, il cui limite estremo dell’individuabilità non è più suscettibile di superamento.
3. La corruzione per l’esercizio della funzione. – L’ambito operativo del nuovo art. 318 c.p. comprende dunque, oltre la corruzione impropria rientrante nella norma previgente, anche la corruzione c.d. per asservimento, concernente i casi – emersi da più e meno recenti inchieste giudiziarie – di iscrizione di soggetti pubblici “a libro paga” da parte di privati e, più in generale, ogni fatto caratterizzato dalla dazione o promessa per l’esercizio delle funzioni o dei poteri.
Il riferimento alternativo alle funzioni e ai poteri vale a conferire rilievo sia all’esercizio delle attribuzioni proprie del pubblico agente che allo svolgimento di attività comunque riconducibili all’ufficio o al servizio.
L’accostamento di corruzione impropria, corruzione per asservimento e di ogni altra dazione o promessa di utilità «per» l’esercizio della funzione induce perplessità sotto due diversi profili.
Anzitutto una volta venuto meno l’atto di ufficio come termine di comparazione per stabilire l’adeguatezza della dazione o della promessa[15], il giudizio sull’idoneità della condotta non può che fondarsi su parametri assai generici, orientati sulla causalità psicologica.
Il secondo motivo di perplessità è costituito dal rilievo che la corruzione «per l’esercizio della funzione» è caratterizzata dalla sua tendenza verso un esercizio delle funzioni o dei poteri, assunto dalla legge come termine di riferimento della dazione o promessa.
Ci si potrebbe chiedere, invero, se in presenza di cospicui donativi, non altrimenti giustificabili se non in relazione a un esercizio delle funzioni o dei poteri, sia configurabile il reato di cui all’art. 318 c.p. Il quesito – che purtroppo non è frutto della fantasia, ove si pensi ai recenti scandali concernenti rilevanti quantità di denaro e altri vari sontuosi regali corrisposti a soggetti operanti ai livelli più elevati della politica – ha risposta negativa poiché, qualora si accertasse che i donativi sono destinati a compensare attività di “protezione” o di «prevenzione e risoluzione di inconvenienti»[16], da svolgersi presso uffici o ministeri diversi da quello di pertinenza del beneficiario della dazione, deve escludersi la loro riferibilità all’esercizio delle funzioni o dei poteri. Come ripetutamente affermato dalla Suprema Corte, infatti, «il delitto di corruzione, rientrando nella categoria dei reati propri funzionali, richiede che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientri nella competenza o nella sfera d’influenza dell’ufficio al quale appartiene l’ipotetico soggetto corrotto, nel senso che occorre che sia espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata dal medesimo, requisito non ravvisabile nell’intervento del pubblico ufficiale che non implichi l’esercizio di poteri istituzionali propri del suo ufficio e non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, ma sia diretto ad incidere nella sfera di attribuzione di un pubblico ufficiale terzo, rispetto al quale il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale»[17].
In sostanza, l’espressione «esercizio delle funzioni o dei poteri» deve essere legata all’atto di ufficio. Anche accedendo alla soluzione giurisprudenziale più ampia, che nella nozione di atto di ufficio comprende «una vasta gamma di condotte umane (effettivamente o potenzialmente) collegate all’incarico del pubblico ufficiale: il compimento di atti di amministrazione attiva, la formulazione di richieste o di proposte, l’emissione di pareri, ma anche la tenuta di una “condotta” meramente materiale o il compimento di atti di diritto privato», restano estranei all’esercizio delle funzioni o dei poteri «gli atti posti in essere solo “in occasione dell’ufficio”, cioè le attività che non sono riconducibili all’incarico del pubblico ufficiale, ma vengono svolte a margine o collateralmente o in concomitanza con le attività di ufficio»[18].
Come si vede, la corruzione per l’esercizio della funzione va nettamente differenziata da un reato che punisce l’indebita accettazione di utilità da parte di persone investite di un pubblico ufficio o servizio.
4. La corruzione per l’esercizio della funzione e l’indebita accettazione di utilità. – E’ certo, in conclusione, che l’art. 318 c.p. postula pur sempre un legame fra la dazione o promessa e un successivo esercizio delle funzioni o dei poteri, che ovviamente deve riflettersi nel dolo di entrambi i soggetti, così da escludere rilevanza penale alle utilità corrisposte come atti di ossequio o mera captatio benevolentiae. Il problema è capire quanto sarà arduo nella pratica distinguere un caso dall’altro.
È da escludere che il legislatore non fosse consapevole di tali implicazioni, poiché l’art. 1, comma 44, l. n. 190 del 2012 ha dato mandato al Governo di definire un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nel quale sia previsto «per tutti i dipendenti pubblici il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l’espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d’uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia»[19].
5. Il denaro e l’altra utilità. – Tale nozione si proietta su qualsiasi vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale, suscettibile di rappresentarsi al pubblico agente nella sua connessione con l’esercizio delle funzioni o dei poteri.
Va da sé che l’utilità deve essere indebita, cioè non dovuta per qualsivoglia altra ragione al pubblico agente.
6. L’elemento psicologico e la consumazione. – Il reato è doloso. È quindi necessario che il pubblico agente si rappresenti di accettare la dazione o promessa di un’utilità indebita, corrispostagli dal privato per l’esercizio della sua funzione o dei suoi poteri; rispetto al privato, è necessario che egli sappia di dare o promettere l’indebito al medesimo scopo.
Qualora il pubblico agente riceva la dazione, erroneamente ritenendo che gli sia dovuta o che spetti alla Pubblica amministrazione, il dolo è escluso nei suoi soli confronti e il privato risponde ex art. 322 c.p.; se invece il privato effettua la dazione nel convincimento che essa sia dovuta alla Pubblica amministrazione, mentre il pubblico agente l’accetta come corrispettivo dell’esercizio della sua funzione o dei suoi poteri, il reato è escluso rispetto al privato, mentre il pubblico agente risponde ex art. 318.
B.2) Artt. 319 ss.
Art. 319 c. p.: “(Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio). Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni”.
Art. 319-ter c. p.: “(Corruzione in atti giudiziari). Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni.
Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni; se deriva l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da sei a venti anni”.
Art. 319-quater c. p.: “(Induzione indebita a dare o promettere utilità). Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni.”
Art. 320 c. p.: “(Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio). Le disposizioni degli articoli 318 e 319 si applicano anche all’incaricato di un pubblico servizio.
In ogni caso, le pene sono ridotte in misura non superiore a un terzo”.
Art. 322 c. p.: “(Istigazione alla corruzione). Chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 318, ridotta di un terzo.
Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell’articolo 319, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall’articolo 319”.
Art. 323 bis c. p.: “(Circostanza attenuante). Se i fatti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-quater, 320, 322, 322-bis e 323 sono di particolare tenuità, le pene sono diminuite)”.
Occorre prendere nota che:
a) la pena della reclusione stabilita dall’art. 319 va ora da quattro a otto anni;
b) la pena della reclusione stabilita dall’art. 319-ter, comma 1, va ora da quattro a dieci anni;
c) la pena della reclusione stabilita dall’art. 319-ter, comma 2, va ora da cinque a venti anni;
d) il nuovo art. 320 estende le disposizioni degli artt. 318 e 319 all’incaricato di un pubblico servizio senza più richiedere, rispetto all’art. 318, che egli rivesta la qualità di pubblico impiegato;
e) il nuovo art. 322, comma 1, registra la sostituzione delle parole «che riveste la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto del suo ufficio» con le parole «per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri»;
f) corrispondentemente risulta modificato l’art. 322, comma 3;
g) nell’art. 323-bis compare ora anche l’art. 319-quater.
C) Il delitto di induzione indebita
Art. 319-quater c. p.: «(Induzione indebita a dare o promettere utilità).
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni».
1. Premessa. – Anteriormente alla l. n. 190 del 2012 regnava una situazione di profonda incertezza rispetto ai rapporti tra concussione e corruzione propria, che si sarebbe verosimilmente mantenuta ancora per lungo tempo se, negli anni più recenti, non fossero intervenute pressioni internazionali.
L’avvio era stato dato dal Working Group on Bribery istituito presso l’OCSE, il cui rapporto sull’Italia adottato il 16 dicembre 2011, ribadendo i rilievi già avanzati quattro anni prima, invitava l’Italia a «modificare senza indugio la sua legislazione, escludendo la configurabilità della concussione come possibile esimente[20] per la corruzione internazionale».
Di analogo parere il Group of States against Corruption (GRECO) che, nel suo rapporto di valutazione sull’Italia adottato a Strasburgo il 23 marzo 2012, osservava nel punto 108 che l’art. 317 c.p. che «potrebbe portare a risultati irragionevoli, in quanto colui che offre la tangente ha il diritto insindacabile di essere esentato dalla sanzione. Il potenziale rischio di uso improprio del reato di concussione come meccanismo di difesa da parte di privati cittadini che commettono la corruzione nell’ambito delle transazioni commerciali internazionali è stato ripetutamente evidenziato come fonte di preoccupazione da parte del gruppo di lavoro dell’OCSE»[21].
Insomma preoccupava che, mentre negli altri ordinamenti giuridici il confine corre tra costrizione e corruzione, l’articolazione del nostro vecchio art. 317 c.p. in costrizione e induzione consentiva ai giudici di ravvisare una concussione anche quando altrove sarebbe stata configurata una corruzione: con la conseguenza di sottrarre il privato alla responsabilità penale per l’art. 319 e di escludere anche la responsabilità amministrativa della persona giuridica ex d. lgs. 231/2001 nel cui interesse avesse agito.
Questo è dunque il problema cui il nostro legislatore ha dovuto porre rimedio e questa è la prospettiva nella quale è necessario verificare gli esiti della riforma.
Un punto è certo: oggi l’«induzione indebita a dare o promettere utilità» prevede la punibilità, sebbene attenuata in confronto al pubblico agente, anche del privato (mentre l’art. 25, comma 3, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in relazione alla responsabilità delle persone giuridiche registra l’inserimento, tra i reati presupposto, dell’art. 319-quater).
2. La condotta. – Separata dalla costrizione a seguito della l. 190/2012, l’induzione è stata portata all’interno di una nuova fattispecie: ciò significa che, sganciata l’induzione dall’art. 317 c.p., essa – che resta fondata sull’abuso della qualità o dei poteri – ha perduto ogni collegamento con la concussione, al punto che l’estraneo non è più vittima ma, al contrario, concorrente nel reato.
In confronto agli artt. 317 e 318-321 c.p., dotati di una condotta delineata chiaramente, l’induzione indebita di cui all’art. 319-quater c. p. non è altrettanto esplicita: è indiscusso che essa sia connessa ad un atto di ufficio, costituente la causa della dazione o della promessa, ma la norma non specifica se tale atto debba essere conforme o contrario ai doveri di ufficio, giusto o ingiusto. Lo sforzo di rinvenire un terreno di applicazione per la fattispecie si scontra dunque con la sua sostanziale indeterminatezza.
L’induzione, in sintesi, esprime l’idea della pressione su un terzo affinché tenga un determinato comportamento. In chiave critica osservo l’assenza di significative differenze tra la condotta di chi induce e la condotta di chi sollecita (art. 322 c. p., commi 3 e 4): il fatto che solo la prima sia caratterizzata da un abuso della qualità o dei poteri appare un argomento superabile, se solo si considera che il fatto stesso di “sollecitare” (e quindi: brigare, insistere, persuadere) una retribuzione non dovuta, è di per sé contrario ai doveri di status.
Comunque, anche ammettendo che l’induzione consista in una pressione che può svolgersi in qualsiasi forma diversa dalla costrizione e si risolva nella prospettazione dell’opportunità o convenienza della dazione o promessa, accompagnata dalla percezione, nel privato, del proprio stato di inferiorità rispetto al pubblico agente, sorge una domanda: l’art. 319-quater si configura oppure no quando la dazione o promessa non risulta preceduta da un esplicito invito del pubblico agente, la cui induzione si sia manifestata attraverso inerzia, ritardo o addirittura una scrupolosa osservanza delle norme regolamentari in contrasto con la prassi dell’ufficio?
La risposta non è immediata: direi che si può con uguale fondatezza propendere per la soluzione positiva o per quella negativa, il che non è mai un buon segnale per la tranquillità di chi è sottoposto alla legge. Un limite mi sembra comunque questo: l’iniziativa del privato, in assenza di qualsiasi condotta ascrivibile al pubblico agente, integra il reato di corruzione.
La sfumata consistenza dell’induzione si ripercuote sull’avverbio «indebitamente». Riportato anche nella rubrica normativa come attributo dell’induzione, allo scopo di rimarcare la sua contrarietà alle norme che disciplinano l’ufficio o il servizio, il concetto di indebito, riferito alla dazione o promessa, nell’art. 319-quater assume un significato diverso che nell’art. 317: cioè se nella concussione esso mira a evidenziare il legame tra la costrizione e la dazione o promessa (che proprio per questo è indebita, indipendentemente dal fatto che fosse dovuta ad altro titolo) il medesimo effetto non può riconoscersi, a causa del suo più tenue contenuto, alla condotta di induzione. Pare ragionevole, allora, che l’avverbio in questione sia inteso nell’art. 319-quater come se dicesse ‘non dovuto a qualsiasi titolo’.
Il dolo per il pubblico agente consiste nella volontà di indurre il privato alla dazione o promessa, accompagnata dalla rappresentazione dell’abuso della qualità o dei poteri e della natura indebita dell’utilità; su questo punto sottolineo che il relativo accertamento può portare al rischio di esasperazioni psicologiche che dovrebbero restare estranee al diritto penale.
Quanto al privato, il dolo consiste nella volontà di corrispondere un’indebita dazione o promessa a seguito dell’altrui condotta induttiva. Va detto che se nettamente diversa può considerarsi la situazione psicologica di chi cede all’altrui violenza o minaccia, assai labili sono i confini con l’atteggiamento di chi persegue il proprio vantaggio attraverso un libero accordo con il pubblico agente.
3. La struttura del reato. – Il delitto in esame verte su un fatto di induzione esclusivamente riferibile al pubblico agente, mentre il comma 2 si limita a sancire la punibilità di chi abbia dato o promesso l’utilità.
Il reato si consuma, a carico di entrambi i soggetti, nel momento in cui viene effettuata la dazione o la promessa.
La clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato” che si legge all’inizio della norma esclude la configurabilità dell’art. 319-quater quando il medesimo fatto costituisce un più grave reato. A fronte dell’inesistenza di ulteriori incriminazioni fondate sull’induzione a dare o promettere utilità, tale clausola mira a ribadire, per i casi di costrizione, la prevalenza dell’art. 317c. p. (concussione) per il pubblico ufficiale e dell’art. 629 c. p. (estorsione) per l’incaricato di un pubblico servizio.
4. La distinzione tra concussione e induzione indebita. – Per comprendere la distinzione tra concussione, induzione indebita e corruzione, conviene prendere le mosse dal rapporto tra concussione e induzione indebita.
Secondo una prima ipotesi, occorre prendere in considerazione la differente intensità psichica esistente tra costrizione e induzione. Secondo me, che il criterio della “quantità” della pressione psichica riesce assai disagevole, a causa sia della varietà delle forme che può assumere l’intimidazione, sia della difficoltà del suo accertamento.
Al fine di distinguere tra i vari reati ben scarso aiuto può venire da un’indagine sulla consistenza dell’abuso della qualità o dei poteri. È vero che tale abuso dovrebbe rivelare un diverso contenuto a seconda che lo si riferisca al solo pubblico ufficiale o anche all’incaricato di un pubblico servizio, ma in ogni caso appare impervia un’interpretazione dell’art. 319-quater incentrata su un abuso che è meno della concussione e si mantiene estraneo alla corruzione.
Un ulteriore criterio distintivo, non alternativo a quello dell’intensità della coazione psichica, consiste nel legare l’ambito operativo degli artt. 317 e 319-quater alla causa della dazione o promessa da parte del privato. A questo proposito osservo che l’induzione può assumere un senso solo in relazione ad un atto di ufficio favorevole (o sull’omissione di un atto sfavorevole) al privato, poiché la sua dannosità determinerebbe l’insorgenza di una costrizione. Nella concussione domina dunque l’idea del male ingiustamente prospettato attraverso la violenza o minaccia dal pubblico agente, mentre nell’induzione prevale l’idea del vantaggio, che a sua volta giustifica la punibilità del privato.
Restano, anche dopo questa veloce analisi, alcune zone d’ombra, nelle quali il pendolo tra concussione e induzione indebita continuerà ad oscillare in tutta la sua ambiguità: non è solo il caso degli atti discrezionali – rispetto ai quali non è possibile stabilire ex ante la doverosità dell’esito della decisione, così da qualificarli giusti o ingiusti, conformi o contrari ai doveri dell’ufficio –, ma sono anche le situazioni in cui l’atteggiamento del pubblico agente trova un’apparente giustificazione nella scrupolosa osservanza delle norme che regolano l’ufficio o il servizio e il privato invece vanti o ritenga di vantare un diritto all’esecuzione dell’atto e, più in generale, tutte le ipotesi in cui la rappresentazione del danno convive con quella del vantaggio, sì da non potersi dire quale di esse abbia effettivamente ispirato la dazione o promessa. Qualora dovesse ritenersi che l’art. 319-quater sia destinato a comprendere le induzioni riferite ad atti discrezionali vantaggiosi per il privato o accompagnate dalla prospettazione alternativa tra un vantaggio indebito e un male ingiusto o da maliziose intimidazioni proiettate sull’adozione di un atto ingiusto ma dannoso, si imporrebbe comunque la conclusione che i casi più ricorrenti di concussione, grazie alla riforma, godono di un cospicuo alleggerimento sanzionatorio, esteso fino all’inapplicabilità delle pene accessorie ex art. 317-bis c.p. Il che, rispetto agli scopi della riforma, appare una scelta assai singolare.
5. La distinzione tra induzione indebita e corruzione. – L’art. 319-quater c. p. prevede, rispetto al pubblico agente, una pena (da tre a otto anni di reclusione) assai più mite di quella stabilita per la concussione (da sei a dodici anni), coincidente nel massimo con la pena (da quattro a otto anni) minacciata dall’art. 319 c. p. (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio) e addirittura inferiore nel minimo; mentre, in rapporto al privato, sancisce una pena (fino a tre anni di reclusione) meno severa della corruzione tipizzata dall’art. 318 c. p. (corruzione per l’esercizio della funzione) (da uno a cinque anni).
In sostanza, l’art. 319-quater contempla un reato sanzionato, per il pubblico agente, con una pena pressoché equivalente a quella stabilita per la corruzione propria; ciò non consente però di affermare che la norma si applica solo ai casi di corruzione propria, visto che l’abuso si presta ad includere anche i casi che comprendono il compimento di atti conformi ai doveri d’ufficio. Stesso discorso per il privato: se la pena sensibilmente più tenue di quella minacciata dall’art. 318 (corruzione per l’esercizio della funzione) parrebbe limitare la fattispecie solo ad atti conformi ai doveri di ufficio, la sua sottoposizione all’abuso induttivo determina la confluenza nell’art. 319-quater, comma 2, anche degli atti contrari ai doveri di ufficio; tale soluzione implica ovviamente la possibilità che l’art. 319-quater sia impiegato come alternativa premiale, in caso di collaborazione processuale, alla pena sancita dall’art. 319 c.p. .
Una volta ritenuto che il reato di induzione indebita è in grado di coprire atti sia conformi che contrari ai doveri di ufficio, la sua distanza dai reati di corruzione andrebbe vista esclusivamente sulla base della pressione psichica esercitata dal pubblico agente sul privato. Non è inutile sottolineare ancora una volta la vaghezza dei contenuti di tale pressione, la difficoltà del relativo accertamento e la sua prossimità alla sollecitazione integrante l’art. 322 c.p. .
L’ingresso sulla scena dell’art. 319-quater c.p. offre dunque al giudice una soluzione sanzionatoria che si aggiunge alla tradizionale alternativa tra concussione e corruzione[22].
Né un valido aiuto può venire da una ricostruzione del dolo: il discrimine tra gli artt. 319-quater e 318 ss., data l’impossibilità di distinguere oggettivamente un fatto di induzione e uno di sollecitazione (art. 322, comma 3), direi che si lega alla volontà di abusare della qualità o dei poteri.
Rispetto al privato, a mio avviso, appare decisivo il timore di un danno ingiusto prospettato dal funzionario, evitabile solo attraverso la dazione o promessa (art. 317 c.p.) ovvero la libertà di quest’ultima, a sua volta in grado di integrare l’art. 319-quater o gli artt. 318 ss. a seconda che la volontà sia stata forzata dall’abuso del pubblico agente o invece sia stata spontanea. Considerando la labilità della linea di confine tra questi atteggiamenti psicologici sorge il dubbio che al libero convincimento del giudice sia offerta una griglia di soluzioni, suscettibili di moltiplicarsi ove si ammetta la possibilità di ravvisare in capo a ciascun soggetto un reato diverso da quello contestato all’altro. La pratica delle aule di giustizia potrà dire se questo ventaglio di soluzioni sia rispondente alla realtà concreta o crei soltanto una gran confusione e disparità di giudizio a seconda dei casi.
Di certo, al paradigma dell’art. 319-quater dovrebbero restare estranee le situazioni finora qualificate come concussione ambientale, in cui il privato prende l’iniziativa della dazione o promessa, in assenza di qualsiasi induzione da parte del pubblico agente, a causa della sua condizione di debolezza o fragilità, sapendo di non poter altrimenti contare su di un trattamento imparziale. Mi chiedo tuttavia se, in questi casi, i giudici coglieranno egualmente un’induzione implicita tale da configurare l’art. 319-quater o invece ravviseranno una corruzione o, rifiutandosi di infliggere al privato una pena per un fatto del quale è al contempo la vittima, si orienteranno nel senso della concussione per costrizione.
Concludendo su questo punto, a mio parere, se fino a ieri la distinzione tra concussione e corruzione era operata attraverso vaghi criteri, oggi la distinzione tra concussione, induzione indebita e corruzione è in grado di ispirarsi a parametri ancora più confusi.
4) La tutela del denunciante
La legge 190/2012 ha disposto che nel decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) sia inserito l’art. 54 bis, rubricato come Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.
Esso stabilisce che, fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato.
L’eventuale adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.
La denuncia, infine, è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.
A mio avviso un meccanismo in qualche modo analogo andrebbe pensato anche sul piano penale per coloro che, anche non essendo pubblici ufficiali e prima che sia iniziato un procedimento penale, denuncino fatti di corruzione.
Credo che la strada percorribile potrebbe essere quella di prevedere un’attenuante speciale, significativa sul piano sanzionatorio, ancorandola alla rilevanza e novità della collaborazione prestata. Ragionando diversamente, infatti, la separazione delle due ipotesi di concussione, potrebbe rilevarsi del tutto inefficace nella lotta ai fenomeni corruttivi.
Sono convinto che la punibilità (senza riserve per l’eventuale collaborazione) anche del privato indotto crea un nesso di solidarietà tra i protagonisti, il che rischia di rendere estremamente difficoltoso (se non quasi impossibile) dimostrare la commissione del reato.
[1] Art. 319 quater c. p. (Induzione indebita a dare o promettere utilità).
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni.
[2] Art. 317 c. p. (Concussione).
Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
[3] Art. 319 c.p. (Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio).
Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.
[4] Art. 318 c. p. (Corruzione per l’esercizio della funzione).
Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sè o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
[5] Art. 2635 c.c. (Corruzione tra privati).
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sè o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.
Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.
Chi dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma è punito con le pene ivi previste.
Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.
[6] Art. art. 346-bis c. p. (Traffico di influenze illecite).
Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sè o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni.
La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale.
La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sè o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.
Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie.
Se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita.
[7] Decreto legislativo 06/09/2011 n. 159.
Art. 91 Informazione antimafia
1. I soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, devono acquisire l’informazione di cui all’articolo 84, comma 3, prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nell’articolo 67, il cui valore sia:
a) pari o superiore a quello determinato dalla legge in attuazione delle direttive comunitarie in materia di opere e lavori pubblici, servizi pubblici e pubbliche forniture, indipendentemente dai casi di esclusione ivi indicati;
b) superiore a 150.000 euro per le concessioni di acque pubbliche o di beni demaniali per lo svolgimento di attività imprenditoriali, ovvero per la concessione di contributi, finanziamenti e agevolazioni su mutuo o altre erogazioni dello stesso tipo per lo svolgimento di attività imprenditoriali;
c) superiore a 150.000 euro per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni, cottimi, concernenti la realizzazione di opere o lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche.
2. È vietato, a pena di nullità, il frazionamento dei contratti, delle concessioni o delle erogazioni compiuto allo scopo di eludere l’applicazione del presente articolo.
3. La richiesta dell’informazione antimafia deve essere effettuata attraverso la banca dati al momento dell’aggiudicazione del contratto ovvero trenta giorni prima della stipula del subcontratto.
4. L’informazione antimafia è richiesta dai soggetti interessati di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, che devono indicare:
a) la denominazione dell’amministrazione, ente, azienda, società o impresa che procede all’appalto, concessione o erogazione o che è tenuta ad autorizzare il subcontratto, la cessione o il cottimo;
b) l’oggetto e il valore del contratto, subcontratto, concessione o erogazione;
c) gli estremi della deliberazione dell’appalto o della concessione ovvero del titolo che legittima l’erogazione;
d) le complete generalità dell’interessato e, ove previsto, del direttore tecnico o, se trattasi di società, impresa, associazione o consorzio, la denominazione e la sede, nonché le complete generalità degli altri soggetti di cui all’articolo 85;
[e) nel caso di società consortili o di consorzi, le complete generalità dei consorziati che detengono una quota superiore al 10 per cento del capitale o del fondo consortile e quelli che detengono una partecipazione inferiore al 10 per cento e che hanno stipulato un patto parasociale riferibile a una partecipazione pari o superiore al 10 per cento, nonché dei consorziati per conto dei quali la società consortile o il consorzio opera nei confronti della pubblica amministrazione.]
5. Il prefetto competente estende gli accertamenti pure ai soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa. Per le imprese costituite all’estero e prive di sede secondaria nel territorio dello Stato, il prefetto svolge accertamenti nei riguardi delle persone fisiche che esercitano poteri di amministrazione, di rappresentanza o di direzione. A tal fine, il prefetto verifica l’assenza delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’articolo 67, e accerta se risultano elementi dai quali sia possibile desumere la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, anche attraverso i collegamenti informatici di cui all’articolo 98, comma 3. Il prefetto, anche sulla documentata richiesta dell’interessato, aggiorna l’esito dell’informazione al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa.
6. Il prefetto può, altresì, desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa da provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata, nonché dall’accertamento delle violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari di cui all’articolo 3 della legge 13 agosto 2010, n. 136, commesse con la condizione della reiterazione prevista dall’articolo 8-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689. In tali casi, entro il termine di cui all’articolo 92, rilascia l’informazione antimafia interdittiva.
7. Con regolamento, adottato con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia, con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro dello sviluppo economico, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, sono individuate le diverse tipologie di attività suscettibili di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa per le quali, in relazione allo specifico settore d’impiego e alle situazioni ambientali che determinano un maggiore rischio di infiltrazione mafiosa, è sempre obbligatoria l’acquisizione della documentazione indipendentemente dal valore del contratto, subcontratto, concessione, erogazione o provvedimento di cui all’articolo 67.
7-bis. Ai fini dell’adozione degli ulteriori provvedimenti di competenza di altre amministrazioni, l’informazione antimafia interdittiva, anche emessa in esito all’esercizio dei poteri di accesso, è tempestivamente comunicata anche in via telematica:
a) alla Direzione nazionale antimafia e ai soggetti di cui agli articoli 5, comma 1, e 17, comma 1;
b) al soggetto di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, che ha richiesto il rilascio dell’informazione antimafia;
c) alla camera di commercio del luogo dove ha sede legale l’impresa oggetto di accertamento;
d) al prefetto che ha disposto l’accesso, ove sia diverso da quello che ha adottato l’informativa antimafia interdittiva;
e) all’osservatorio centrale appalti pubblici, presso la direzione investigativa antimafia;
f) all’osservatorio dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture istituito presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, ai fini dell’inserimento nel casellario informatico di cui all’articolo 7, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici di cui all’articolo 62-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82;
g) all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per le finalità previste dall’articolo 5-ter del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27;
h) al Ministero delle infrastrutture e trasporti;
i) al Ministero dello sviluppo economico;
l) agli uffici delle Agenzie delle entrate, competenti per il luogo dove ha sede legale l’impresa nei cui confronti è stato richiesto il rilascio dell’informazione antimafia.
[8] Sono considerati “settori a rischio” di infiltrazione mafiosa i seguenti settori:
a) trasporto di materiali a discarica per conto di terzi;
b) trasporto, anche transfrontaliero, e smaltimento di rifiuti per conto di terzi;
c) estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti;
d) confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume;
e) noli a freddo di macchinari;
f) fornitura di ferro lavorato;
g) noli a caldo;
h) autotrasporti per conto di terzi;
i) guardiania dei cantieri
[9] Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in www.penalecontemporaneo.it, p. 8; DOLCINI – VIGANÒ, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, ibid., p. 6; PALAZZO, Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, ibid., p. 5; MONGILLO, La corruzione tra sfera nterna e dimensione internazionale, Napoli, 2012, p. 134; PISA, Una nuova stagione di “miniriforme”, in Dir. pen. proc., 2012, 1422; SEMINARA, I delitti di concussione e induzione indebita, in La legge anticorruzione, a cura di Mattarella e Pelissero, Torino, 2013, p. 388 s. Nello stesso senso si è espresso l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione nel documento «Novità legislative: L. 6 novembre 2012, n. 190 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”» (rel. n. III/11/2012 del 15 novembre 2012), § 2.3.2. Contra SEVERINO, La nuova Legge anticorruzione, in Dir. pen. proc., 2013, p. 9, la quale osserva che «si è in presenza di una circostanza aggravante comune soggetta al giudizio di bilanciamento e i cui effetti dunque potranno essere neutralizzati dal riconoscimento ad esempio delle circostanze attenuanti generiche laddove nella concussione per costrizione il più severo trattamento sanzionatorio è assicurato dalla cornice edittale astratta contemplata dall’art. 317 c.p.». Da notare che la riconduzione dei fatti di concussione dell’incaricato di un pubblico servizio all’art. 629 c.p. determina, rispetto al passato, una abrogatio sine abolitio, cui si accompagnano però rilevanti effetti in tema di consumazione e concorso di reati.
[10] Da ult. Cass., Sez. V, 6 ottobre 2010, Citro, in Riv. pen., 2011, p. 787; Id., Sez. II, 20 maggio 2010, P.m. in proc. Pistolesi, ibid., p. 569.
[11] Così Corte cost., 1° marzo 1979, in Giust. pen., 1979, I, c. 337.
[12] Per tutte, Cass., 4 maggio 2006, n. 33435; da ult., Id., sez. un., 25 febbraio 2010, Mills, in Riv. pen., 2011, p. 336, che ha ravvisato il momento consumativo non nel versamento del denaro in un conto non intestato all’imputato, bensì nella successiva utilizzazione di esso.
[13] Da ult., Cass., 16 maggio 2012, n. 30058.
[14] Da ult., Cass., 25 agosto 2009, n. 34834; conf. Id., 4 maggio 2006, n. 33435, secondo cui l’asservimento della funzione pubblica agli interessi del privato corruttore «si concretizza quando il privato promette o consegna al soggetto pubblico, che accetta, denaro o altra utilità, per assicurarsene, senza ulteriori specificazioni, i futuri favori e non può sottacersi che tale modalità corruttiva è certamente la più allarmante e la più subdola, perché determina un permanente condizionamento dell’attività istituzionale del pubblico ufficiale (…); anche nella ipotesi considerata, invero, il requisito della individuazione è certamente integrato dal comportamento-tipo (asservimento della funzione) che costituisce la controprestazione promessa all’erogatore di denaro e che può articolarsi anche in plurimi interventi, non specificamente previsti o programmati, ma agevolmente prevedibili». Talvolta la S.C. ha però affermato che, «nell’ipotesi in cui la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale risulti documentata, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio è stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione» (Id., 25 marzo 2010, Bruno, in Riv. pen., 2011, p. 566).
[15] Da ult. Cass., 11 gennaio 2012, Stabile, in Riv. pen., 2012, p. 396, che in relazione all’art. 322 c.p. afferma l’esigenza di correlare la potenzialità corruttiva dell’offerta «alla controprestazione richiesta, alle condizioni dell’offerente e del soggetto pubblico nonché alle circostanze di tempo e di luogo in cui si colloca il fatto».
[16] VANNUCCI, Atlante della corruzione, Torino, 2012, p. 33.
[17] Cass., 8 marzo 2012, , n. 38762, che così conclude: «La raccomandazione, in sostanza, è condotta che esula dalla nozione di atto d’ufficio; trattasi di condotta commessa in occasione dell’ufficio e non concreta, pertanto, l’uso dei poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell’agente». Analogamente Id., 4 maggio 2006, n. 33435: «L’atto d’ufficio, inteso non in senso strettamente formale ma anche come comportamento materiale, per essere qualificato tale, a prescindere dalla sua contrarietà o conformità ai doveri, deve essere esplicazione dei poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata e presuppone – per così dire – la necessità di una congruità tra esso, in quanto oggetto dell’accordo illecito, e la posizione istituzionale del soggetto pubblico contraente. (…) Deve, invece, escludersi il reato di corruzione passiva nel caso in cui il pubblico ufficiale prometta e ponga eventualmente in essere il suo intervento prezzolato, avvalendosi della sua qualità, dell’autorevolezza e del prestigio che gli derivano dalla carriera ricoperta, senza che detto intervento comporti l’attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o sia in qualche maniera a questi collegabile».
[18] Per entrambi i passi riportati Cass., 26 settembre 2006, n. 38698.
[19] L’art. 4 del nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, approvato l’8 marzo 2013 dal Consiglio dei Ministri, così dispone: «(Regali, compensi e altre utilità) 1. Il dipendente non chiede, per sé o per altri, regali o altre utilità. 2. Il dipendente non accetta, per sé o per altri, regali o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore effettuati occasionalmente nell’ambito delle normali relazioni di cortesia. In ogni caso, indipendentemente che il fatto costituisca reato, il dipendente non chiede, per sé o per altri, regali o altre utilità, neanche di modico valore a titolo di corrispettivo per compiere o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell’ufficio ricoperto. 3. Il dipendente non sollecita, per sé o per altri, regali o altre utilità. (…) 6. Ai fini del presente articolo, per regali o altre utilità di modico valore si intendono quelle di valore non superiore, in via orientativa, a 100 euro, anche sotto forma di sconto. I piani di prevenzione della corruzione possono modulare tale importo, anche in misura ridotta, e comunque per un importo massimo non superiore a 150 euro».
[20] Così Phase 3 Report on Implementing the OECD Anti-Bribery Convention in Italy – December 2011. Si è tradotto come “esimente” il termine defence, che però comprende le cause di giustificazione come pure le scusanti e le cause di non punibilità: per tutti, FLETCHER, Grammatica del diritto penale (trad. it. a cura di Papa), Bologna, 2004, p. 149 ss.
[21] Così il Rapporto GRECO di valutazione sull’Italia – Tema I Incriminazioni – Terzo ciclo di valutazione (GRECO Eval III Rep 2011 7E).
[22] Analogamente si esprime l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, § 2.3.1., secondo cui «il crinale che divide le tre diverse figure di reato (dalla più lieve alla più grave: corruzione – induzione indebita – concussione) appare di non immediata individuazione».