Vincenzo Paone
P.M. presso il tribunale di Asti
Intervento al Convegno “Frodi in materia alimentare e tutela del consumatore” – Cuneo, ex Mater Amabilis – 27 gennaio 2011.
Il presente contributo vuole essere uno stimolo alla riflessione sui contenuti e i limiti della colpa richiesta per l’affermazione di responsabilità in relazione alla commissione di un reato in materia di alimenti.
Prima di entrare nel merito del discorso, giova ricordare che la Cassazione, occupandosi del concorso tra il delitto di cui all’art. 515/516 cod. pen. e la contravvenzione prevista dall’art. 5 legge 30 aprile 1962 n. 283, ha avuto modo di puntualizzare che i citati reati hanno differente oggettività giuridica: i primi sono posti a tutela della regolarità dei rapporti commerciali e dell’ordine economico minacciato da chi produca e/o ponga in vendita sostanze alimentari dichiarate genuine, pur non essendo tali, o diverse da quelle dichiarate/pattuite; la seconda, invece, intende garantire la genuinità dei prodotti nell’interesse dell’igiene e della salute pubblica e, pertanto, è diretta a colpire tutti i comportamenti di produttori e commercianti che producano o distribuiscano prodotti che non rispondano ai requisiti prescritti dalle leggi vigenti.
E’ tradizionale l’affermazione che, sulla premessa del descritto bene tutelato, le prescrizioni penali della l. 283 assicurino una protezione anticipata all’interesse del consumatore sicchè la norma delinea un reato di pericolo presunto, nel senso che la fattispecie – in termini di offensività del bene giuridico – non esige il verificarsi di un danno per la salute di consumatori né una concreta attitudine nociva dei prodotti ([1]).
In realtà, questa posizione è stata rivisitata negli ultimi anni in relazione a due particolari fattispecie criminose contemplate dall’art. 5: la lett. b) (alimenti in cattivo stato di conservazione) e la lett. d) (sostanze alimentari «comunque nocive»).
Infatti, per quanto attiene la previsione della lett. b), la sentenza a ss.uu. Cass. 19 dicembre 2001, Butti ([2]) ha stabilito che tale contravvenzione non è un reato di pericolo presunto, ma di danno, in quanto la disposizione citata non mira a prevenire — con la repressione di condotte, come la degradazione, la contaminazione o l’alterazione del prodotto in sé, la cui pericolosità è presunta iuris et de iure — mutazioni che nelle altre parti del citato art. 5 sono prese in considerazione come evento dannoso, ma persegue un autonomo fine di benessere, consistente nell’assicurare una protezione immediata all’interesse del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura ([3]).
Per quanto attiene la seconda ipotesi, si è statuito che la configurabilità della contravvenzione esige che il pericolo per la salute pubblica sia concreto ed attuale e non è sufficiente l’ipotetica ed astratta possibilità di nocumento della sostanza alimentare ([4]) anche se, così opinando, il più delle volte potrebbe essere esclusa l’applicabilità dell’art. 5 per assorbimento nel delitto previsto dagli artt. 444/452 cod. pen. ([5]) che, secondo la pacifica giurisprudenza, configura (anch’esso) un reato di pericolo concreto per la sussistenza del quale è perciò necessario che gli alimenti abbiano attitudine ad arrecare effettivo nocumento alla salute pubblica ([6]).
Resta fermo che, in ogni caso, e cioè anche quando la lesione dell’interesse protetto è presunta juris et de jure, per la sussistenza della contravvenzione è comunque sempre richiesta l’esistenza di una situazione di fatto corrispondente all’ipotesi normativa ([7]).
II. I precetti della l. n. 283 si riferiscono a tutti i soggetti che prendono parte alle operazioni che portano il prodotto dal fabbricante al consumatore: è stato infatti affermato ([8]) che i vari protagonisti della catena di produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari (compresi quelli deperibili) sono destinatari degli obblighi posti a tutela della qualità dei prodotti e della salute dei cittadini il principale dei quali, ovviamente, è quello di garantire la conformità degli alimenti alla normativa.
Non dimentichiamo l’indicazione che deriva da ultimo dal regolamento (ce) n. 852/2004 del 29 aprile 2004 sull’igiene dei prodotti alimentari il cui art. 3 recita che: «Gli operatori del settore alimentare garantiscono che tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione degli alimenti sottoposte al loro controllo soddisfino i pertinenti requisiti di igiene fissati nel presente regolamento».
In questa prospettiva si colloca la riflessione sull’elemento soggettivo: infatti, all’infuori del caso in cui il soggetto abbia intenzionalmente violato le regole produttive, di tal chè risponderà dell’illecito a titolo doloso, è esperienza comune che nella maggior parte dei casi la violazione ha come substrato la semplice colpa.
E’ superfluo ricordare che il criterio di valutazione della colpa resta sempre quello della c.d. prognosi postuma, vale a dire che non è corretto dimostrare la sussistenza della colpa sulla sola base del dato obiettivo della riscontrata non conformità del prodotto. Occorre infatti sempre procedere con il metodo dell’accertamento ex ante e cioè chiedersi quale condotta diligente avrebbe potuto e perciò dovuto tenere il soggetto per evitare certamente o molto probabilmente l’immissione nel circuito distributivo di alimenti non regolari.
La prima indagine da svolgere pertanto è quella di stabilire con il massimo grado possibile di concludenza ed efficacia probatoria la causa materiale dell’alterazione/contaminazione o comunque della difformità del prodotto ([9]). Successivamente, ribadito che la colpa non può essere presunta con inaccettabili automatismi che facciano derivare dalla situazione di fatto accertata la violazione delle regole cautelari, si potrà passare all’individuazione dei comportamenti che avrebbero potuto ragionevolmente e concretamente prevenire il rischio ed infine, avendo così costruito l’agente modello (l'”homo ejusdem professionis et condicionis“), si potranno accertare le precise deficienze nell’organizzazione dell’impresa.
Ciò posto, è indubbio che il più importante obbligo del titolare dell’impresa alimentare, la cui inosservanza può essere fonte di responsabilità penale, consista nell’analisi dei pericoli e punti critici di controllo così come previsto dall’art. 5 reg. n. 852/2004 il cui 1° comma stabilisce per l’appunto che «Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure
permanenti, basate sui principi del sistema HACCP» e cioè:
«a) identificare ogni pericolo che deve essere prevenuto, eliminato o ridotto a livelli accettabili;
b) identificare i punti critici di controllo nella fase o nelle fasi in cui il controllo stesso si rivela
essenziale per prevenire o eliminare un rischio o per ridurlo a livelli accettabili;
c) stabilire, nei punti critici di controllo, i limiti critici che differenziano l’accettabilità e l’inaccettabilità ai fini della prevenzione, eliminazione o riduzione dei rischi identificati;
d) stabilire ed applicare procedure di sorveglianza efficaci nei punti critici di controllo;
e) stabilire le azioni correttive da intraprendere nel caso in cui dalla sorveglianza risulti che un determinato punto critico non è sotto controllo;
f) stabilire le procedure, da applicare regolarmente, per verificare l’effettivo funzionamento delle misure di cui alle lettere da a) ad e); e
g) predisporre documenti e registrazioni adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa alimentare al fine di dimostrare l’effettiva applicazione delle misure di cui alle lettere da a) ad f).
Qualora intervenga un qualsiasi cambiamento nel prodotto, nel processo o in qualsivoglia altra fase gli operatori del settore alimentare riesaminano la procedura e vi apportano le necessarie modifiche» ([10]).
L’omessa osservanza durante tutta la catena alimentare delle regole cautelari, a cominciare dall’adozione del “piano di autocontrollo” passando poi per l’integrale rispetto delle indicazioni ivi contenute, costituisce dunque un profilo di colpa degli operatori del settore alimentare.
L’affermazione di responsabilità per colpa del «garante della sicurezza alimentare» richiede che costui sia venuto meno all’obbligo di predisporre tutte le misure e le cautele imposte dalla legge o dalla prudenza professionale esigibili da parte degli esercenti operanti nelle identiche condizioni e idonee, secondo il canone dell’«oltre ogni ragionevole dubbio», ad impedire ogni evento indesiderato.
In questa ottica, tanto gli operatori del settore alimentare della cd. produzione primaria quanto coloro che intervengono in qualsivoglia fase della produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti successiva alla predetta fase, dovranno, ad esempio, disporre opportuni e adeguati controlli sulle materie prime e gli ingredienti impiegati nella produzione e, soprattutto, sul prodotto finale prima che sia distribuito al consumo.
Tuttavia, pur essendo indiscutibile che la tutela della salute pubblica imponga l’osservanza rigorosa di queste cautele, vi sono situazioni obiettive in cui il rispetto della norma che vieta di commercializzare un prodotto che non sia stato previamente controllato non è in concreto esigibile o, quantomeno, non lo è con la medesima estensione.
Infatti, anche utilizzando i più efficienti controlli, soprattutto nel caso della produzione di massa, può risultare impossibile la verifica di ogni singola unità del prodotto da immettere in commercio: va infatti tenuto conto che occorre comunque rispettare i termini di scadenza correlati alla natura dell’alimento e va inoltre considerato che ciò che è immune da vizi oggi, potrebbe non esserlo dopo un certo lasso di tempo e perciò, se non si fissassero dei «paletti», il controllo degli alimenti potrebbe perpetuarsi all’infinito con la paralisi di fatto del commercio ([11]).
La definizione della responsabilità penale del rappresentante di un’impresa alimentare deve dunque misurarsi con la delineata difficoltà di rispettare, in ogni condizione, la regola del controllo preventivo degli alimenti.
Nel caso di impossibilità pratica di controllare il prodotto in tempi accettabili e/o nella sua interezza, si deve verificare la conformità degli alimenti ai requisiti stabiliti dalla normativa ricorrendo, quantomeno, ad analisi a campione del prodotto ([12]).
Emblematica in questo senso è la vicenda oggetto di Cass. 14 maggio 1998, Cattaneo ([13]): la Corte ha annullato, per carenza dell’elemento soggettivo, la condanna di un importatore ([14]) rilevando che costui, se anche avesse sottoposto ad analisi a campione il prodotto importato, che presentava il rischio di contaminazione da parassiti, non avrebbe comunque potuto evitare la messa in commercio di due sole «barrette» di un prodotto dolciario in cui era stata riscontrata l’irregolarità.
Nella motivazione si mette opportunamente in risalto che «anche effettuato il controllo a campione, poteva accadere, per una diversa confezione di quella stessa partita e con quella stessa scadenza, che si trovassero ugualmente parassiti infestanti. Tale affermazione dimostra che nel caso in esame manca del tutto la prova del nesso di relazione causale tra la violazione dell’obbligo di controllare la regolarità del prodotto (nella specie, mediante analisi a campione) e l’accertata infestazione da parassiti delle confezioni incriminate; manca cioè la prova della colpa dell’agente in relazione all’evento specifico. Infatti, nel contesto di cui si è detto, non è possibile affermare che il prescritto controllo, anche se regolarmente effettuato, avrebbe consentito all’importatore di evitare la commercializzazione delle due scatole incriminate: l’affermazione sarebbe stata possibile solo se fosse stata possibile l’analisi di tutte le confezioni ovvero se l’intera partita fosse risultata avariata, ovvero ancora se l’infestazione avesse riguardato un prodotto uniforme e unitario (e non, come quello in esame, frazionato in tante diverse confezioni, come, ad esempio, un determinato quantitativo di vino, di carne, ecc.)».
Una puntualizzazione però si impone. Ai fini dell’apprezzamento della colpa dell’agente, il sistema di controllo a campione potrebbe essere ritenuto idoneo alla condizione che vengano osservate le stesse cautele e prescrizioni con le quali opera l’organo di vigilanza: al riguardo, è stato detto in dottrina ([15]) che «ciò che l’osservanza delle modalità di prelevamento garantisce è la rappresentatività del campione rispetto alla massa da cui proviene: prescrivendo un certo modus procedendi nella operazione acquisitiva si vuole assicurare che il saggio analizzato presenti i requisiti e le qualità dell’intera partita di merce da cui è tratto. Solo così il responso dell’analisi sarà con tutta sicurezza riferibile al prodotto che si intendeva controllare».
Dal punto di vista tecnico, il campionamento è tutt’altro che semplice: infatti, a parte i prodotti «omogenei», per quanto riguarda le altre sostanze alimentari, che costituiscono un «aggregato» di elementi diversi, ma dello stesso genere (ad es. una partita di carne o una partita di frutta, ecc.), le modalità di campionamento devono necessariamente tenere conto di tutte le «variabili» che potrebbero influenzare l’effettiva rappresentatività della partita.
Pertanto, va affermata la responsabilità del produttore (o dell’importatore) se risulti comprovata l’inadeguatezza del controllo eseguito su un campione prelevato in modo irregolare e perciò non rappresentativo dell’intera massa del prodotto alimentare posto in commercio.
Nella predisposizione delle procedure di campionamento non va trascurato il fatto che il non conoscere che cosa è stato effettivamente impiegato, magari anche illegalmente, all’atto della produzione dell’alimento, ostacola fortemente l’espletamento di appropriate analisi in tempi accettabilmente brevi: ne deriva perciò che il rimprovero che si può muovere all’agente riguarderà sicuramente l’omessa ricerca delle sostanze di più frequente o comunque di più probabile utilizzo (anche illegale) mentre potrebbe essere più difficoltoso affermare la responsabilità dell’operatore per un evento che non era obiettivamente possibile né prevedere né prevenire.
Esemplificativa al riguardo è la vicenda relativa alla vendita di alimenti in cui, in sede di analisi, è stata rinvenuta la presenza della sostanza denominata Sudan 1, il cui uso è vietato nelle sostanze alimentari.
Infatti, Cass. 28 febbraio 2008, n. 15670, Maio, inedita, per ribaltare l’affermazione di colpevolezza del prevenuto, ha osservato che «il giudice di merito…prende le mosse dai risultati dell’accertamento effettuato sui campioni di peperoncino, prelevati presso la sede societaria dell’imputato, dai quali è incontestabilmente emerso che i vasetti di pomodoro secco, furono preparati con l’aggiunta dei peperoncini, trattati con la sostanza colorante vietata, Sudan 1. Sulla base di ciò il decidente ha ritenuto di ravvisare nel comportamento posto in essere dal Maio ‘una certa colpa’, per non essersi costui assicurato, se necessario anche facendo esaminare il prodotto, acquistato da una azienda specializzata con sede in Padova, che al peperoncino non fossero state aggiunte sostanze vietate; niuna rilevanza, di contro, ha attribuito a quanto emerso in istruttoria in ordine alla circostanza, non contestata, secondo la quale il prodotto de quo, era stato spedito dalla ditta venditrice già confezionato e munito di etichetta, nella quale risultava omesso ogni riferimento all’impiego di colorante vietato…Fondata appare, pertanto, la eccezione formulata con il primo motivo di gravame, con cui si obietta che nella condotta posta in essere dal prevenuto non è ravvisabile colpa alcuna, dovendosi, di contro, evidenziare che l’imputato ha adottato le normali misure di diligenza, prudenza e perizia che l’esercente attività di commercio di prodotti alimentari deve ragionevolmente porre in atto, non essendo tenuto, di certo, come asserito dal giudice di merito, a sottoporre ad indagini analitiche i prodotti, confezionati ed imballati con etichettatura, acquistati da altro esercente».
Di contro, Cass. 29 novembre 2007, n. 574, Campari, inedita, ha confermato la condanna dell’amministratore delegato di una società che aveva venduto ad un supermercato «fagioli neri stufati alla messicana» con aggiunta dell’additivo chimico Rosso Sudan 1 sostenendo che «è dovere di chi pone in commercio un prodotto accertarsi che questo non contenga additivi vietati e pericolosi; b) che il rivenditore avrebbe dovuto provvedere al recall anche se venuto a conoscenza della pericolosità del Sudan, possibilmente contenuto nel peperoncino, in un momento successivo allo smercio del prodotto presso dettaglianti; c) che la decisione della commissione europea del 20 giugno 2003 prevede l’obbligo specifico, di cui all’art. 2 della decisione stessa, non solo a carico degli importatori ma anche ‘degli altri soggetti’, compreso, quindi, il rivenditore del prodotto. La colpa del Campari è stata, poi, correttamente motivata, secondo la costante giurisprudenza della Suprema corte in materia, con riferimento alla omissione dei controlli e delle cautele che gravavano sull’imputato al fine di garantire la corrispondenza del prodotto, destinato alla distribuzione, alle norme di legge, ai sensi dell’art. 5. La buona fede in materia può, invero, esimere da responsabilità solo quando l’imputato sia incorso nella violazione di legge per cause indipendenti dalla sua volontà e, cioè, quando risulti provato che lo stesso ha compiuto quanto era necessario per la osservanza delle norme sicché la violazione appaia determinata da errore inevitabile, identificabile nella forza maggiore e nel caso fortuito non ricorrenti, nella specie, per il solo fatto che il commerciante indiano dell’additivo chimico in questione avesse rilasciato la dichiarazione 27 maggio 2003, come osservato dal giudice di merito».
IV. Una problematica analoga si riscontra nella situazione del rivenditore di alimenti sfusi che risponde anche delle difformità c.d. intrinseche degli stessi.
Come è noto l’obbligo di garantire la conformità degli alimenti alla normativa vigente riguarda anche il rivenditore salvi i casi di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 19 l. 283.
Questa norma in effetti contiene un principio che travalica il caso oggetto della disposizione: la norma, infatti, codifica l’inevitabilità del fatto addebitato, cioè l’impossibilità materiale dell’operatore alimentare di accertare, mediante l’adozione della normale diligenza e prudenza, la rispondenza alle prescrizioni legali del prodotto commercializzato.
In una non recente sentenza della Corte suprema ([16]) si ricordava la sempre maggiore importanza del principio compendiato nella c.d. inesigibilità, che pur non essendo prevista nel nostro ordinamento, ma in quello tedesco, ha trovato un primo riconoscimento nella sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale (in tema di errore inevitabile su legge penale), e viene ad avere, sia pure con tutte le limitazioni conseguenti all’inquadramento dogmatico delle cause di giustificazione, un ulteriore positivo riscontro nello stato di necessità. Pertanto, secondo questa decisione, il rivenditore non può essere ritenuto colpevole della composizione dei prodotti sfusi che non rivelino esteriormente alcun vizio e per i quali qualsiasi appropriato controllo analitico si risolverebbe, per l’estrema deperibilità del prodotto, nell’incommestibilità dello stesso e in pratica nell’impossibilità di immetterlo al consumo.
In questa prospettiva, Cass. 4 novembre 2009, Livi ([17]) ha sentenziato che risponde del reato di cui all’art. 5, lett. d) il commerciante di prodotti alimentari «sfusi» – a favore del quale non opera la causa di non punibilità di cui all’art. 19 – per aver detenuto per la vendita alimenti (polli) contaminati da germi patogeni non avendo verificato la corrispondenza del prodotto alimentare alle norme di legge attraverso le opportune analisi eseguite anche a campione (nella specie, la responsabilità per colpa del commerciante, che asseriva che il prodotto era stato acquistato dal produttore proprio il giorno prima del controllo ufficiale, è stata giustificata alla luce del fatto che non aveva inserito nel proprio piano di autocontrollo la valutazione del rischio da contaminazione da agenti patogeni) ([18]).
Sulla stessa tematica, si veda ancora Cass. 6 ottobre 2009, Destefano ([19]), in una fattispecie in cui un prodotto semilavorato, costituito da gnocchi di patate contenenti acido sorbico in quantità superiore a quella prevista dal d.m. sanità n. 209 del 1996, era stato fornito dal produttore ad un commerciante di prodotti alimentari che, previa lavorazione finale, li aveva immessi in commercio senza effettuare preventivamente i controlli a campione.
Estremamente chiara è la posizione di Cass. 8 novembre 2006, Miraglies, ([20]): in un caso di vendita di alimenti in stato di alterazione (nella specie, fra le buste di alimenti, destinate alla preparazione dei pasti, ve ne era una che presentava un problema di aggraffatura all’esterno con conseguente lesione della sigillatura e formazione di muffa all’interno della confezione) ha sostenuto che la responsabilità del venditore non può essere affermata soltanto in base al fatto che lo stesso era il titolare dell’autorizzazione sanitaria che, salvo prova contraria, avrebbe dovuto garantire il controllo sugli alimenti da somministrare, ma richiede sempre l’individuazione del comportamento, costituente violazione dell’obbligo di garanzia posto a suo carico, che avrebbe dovuto tenere per evitare la contestazione penale.
Analogamente, Cass. 4 ottobre 2006, Del Gaudio, ([21]), ha affermato che la responsabilità del gestore di un punto vendita di una catena di supermercati, in cui sono stati posti in commercio alimenti non conformi alla legge (nella specie, pesce spada invaso da parassiti denominati «stadi larvali cestoidi»), va esclusa nell’ipotesi in cui il piano di autocontrollo stabilito a livello centrale si limiti a prevedere la sola «ispezione visiva da parte del responsabile di reparto» (costituente, peraltro, una modalità di controllo espressamente prevista dall’art. 9, 5° comma, d.leg. 531/92) in quanto la rilevabilità dei parassiti da parte di un occhio esperto, la sussistenza di controlli sanitari obbligatori a monte lungo la catena commerciale e la deteriorabilità del prodotto escludono che si possano richiedere accertamenti più complessi di quelli demandati al preposto al singolo reparto.
Per Cass. 27 giugno 2007, Fioroni ([22]), non può affermarsi la responsabilità per il reato di cui all’art. 5, lett. d), (ravvisato nel fatto che, in un campione di carne bovina macinata, era stato rinvenuto il batterio della Salmonella typhimurium) se l’imputato è il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni (quarantasette punti vendita dislocati in cinque regioni; peraltro, nel punto di vendita dove si è verificato il fatto era presente un responsabile investito del compito del c.d. autocontrollo a norma del d.leg. 155/97) e se al medesimo non possa essere contestato uno specifico addebito di culpa in eligendo (è risultato infatti che il fornitore della carne era una importante azienda del settore, in grado di fornire ogni possibile garanzia di affidabilità) e di culpa in vigilando (è stato accertato che l’obbligo di verificare che il fornitore eseguisse puntualmente la propria prestazione era stato assolto con cadenza semestrale) essendo evidente che l’interesse generale tutelato dalla norma penale impone che la diligenza sia massima, ma la giusta pretesa dell’ordinamento non può comunque oltrepassare il limite del legittimamente esigibile.
Sempre in tema di obbligo di vigilanza, in una vicenda in cui era stata fornita ad un cliente una pietanza che conteneva al suo interno un corpo estraneo (e perciò era stata elevata l’imputazione di vendita di alimento «insudiciato»), Cass. 24 ottobre 2007, n. 43840, Bartolini, inedita, ha giudicato infondato il motivo di ricorso in cui si sosteneva una sorta d’inesigibilità del dovere d’impedire che corpi estranei «cadano» nella pietanza in corso di preparazione, osservando che «a parte la singolarità della prospettazione…anche se il corpo estraneo si fosse trovato in un barattolo di pelati, non per questo l’utilizzatore del barattolo andrebbe esente da ogni dovere di controllo, che, una volta aperta la confezione, grava invece esclusivamente su di lui». La corte ha altresì ripetuto che «l’obbligo di vigilare adeguatamente e di fornire — semmai attraverso un apposito codice di sicurezza da seguire nella preparazione degli alimenti — direttive producenti per l’opportuno controllo igienico incombe su chi organizza il servizio, vale a dire proprio sul legale rappresentante dell’ente, chiamato a risponderne per colpa diretta e non certamente in via di responsabilità oggettiva».
Di notevole interesse è Cass. 6 febbraio 2007, n. 10884, Noli, inedita, che, esprimendosi sulla responsabilità del titolare di un esercizio che aveva posto in commercio confezioni di carni irregolarmente conservate, ha fornito una sorta di «decalogo» del buon rivenditore osservando che l’imputato aveva omesso a) di predisporre e garantire una vigilanza costante per impedire che alimenti destinati al consumo umano venissero conservati ad una temperatura di magazzinaggio non idonea; b) di impartire opportune disposizioni generali affinché prodotti comunque inidonei alla preparazione di pietanze alimentari venissero individuati con congrue modalità ed immediatamente separati dalle altre sostanze alimentari.
In analoga fattispecie (Cass. 6 febbraio 2007, n. 10895, Chang, inedita), la corte ha ravvisato la colpa per aver omesso di predisporre e garantire una vigilanza costante per impedire che le sostanze destinate al consumo umano venissero immagazzinate con metodi impropri e ad una temperatura non idonea e d’impartire opportune disposizioni ad un gestore affidabile affinché i prodotti alimentari venissero conservati con modalità adeguate a garantire la loro perfetta igienicità.
In altra decisione (Cass. 6 febbraio 2007, n. 10889, Mazzoli, inedita) la Cassazione ha respinto il ricorso della pubblica accusa avverso l’assoluzione del responsabile legale di un supermercato che aveva venduto una seppia in cattivo stato di conservazione contestando al ricorrente che aveva esposto principî propri della responsabilità oggettiva, non configurabile in sede penale. I giudici di legittimità hanno condiviso l’assoluzione dell’imputato perché era risultato che aveva adottato tutte le precauzioni ragionevolmente esigibili per garantire la conformità del prodotto alle prescrizioni di legge, sia sotto il profilo della verifica documentale dell’origine e della qualità dello stesso, sia sotto il profilo interno, diretto all’accertamento della qualità e conservazione dei prodotti.
In una fattispecie in cui era stato contestato il reato di cui all’art. 5, lett. d), per la detenzione per la vendita di granella di nocciole contenente aflatossina B1 in quantità superiore ai limiti di sicurezza, la corte (Cass. 29 novembre 2006, n. 1348, Sacchi, inedita) ha sostenuto che il giudice di merito aveva correttamente rilevato che la partita, di cui faceva parte il lotto sottoposto a campionamento, era giunta presso la società dell’imputato sprovvista di qualsiasi supporto analitico proveniente dal produttore sicché s’imponeva, in assenza di tale certificazione, pure prevista per contratto, una maggiore accuratezza nelle verifiche e nei controlli da parte del venditore.
Meno solida, invece, è un’altra sentenza (Cass. 5 aprile 2007, n. 19716, Roscio, inedita) che ha affrontato la questione della validità del piano di autocontrollo dei prodotti alimentari in un caso in cui era stata accertata la presenza del batterio denominato Listeria monocytogenes in tramezzini al salmone posti in vendita. La sentenza invero si limita ad osservare che l’adottato piano di autocontrollo non era risultato idoneo ad escludere dalla vendita il prodotto contaminato, senza tuttavia indicare specifiche circostanze oggettive a fondamento del giudizio di insufficienza dei controlli attuati.
Sulla responsabilità del grossista, ci pare da condividere la posizione espressa da Cass. 16 ottobre 2007, Idri ([23]) che, pur ritenendo che l’attività dei rivenditori all’ingrosso si caratterizzi per un volume di affari e per tempi di smaltimento dei prodotti che, in presenza di merci deperibili, non consentono sistematici e capillari controlli, proprio la presenza di un elevato volume d’affari e le caratteristiche del commercio svolto consentono al grossista la programmazione di forme di verifica della qualità della merce trattata e pertanto la sua responsabilità può essere esclusa solo ove, quantomeno periodicamente, siano stati eseguiti controlli a campione su ciascuna delle categorie di prodotti acquisiti per la rivendita o sia stata richiesta al produttore la prova di tali indagini (verifiche che, invece, non possono essere richieste al commerciante al dettaglio).
E’ d’uopo ricordare al riguardo Cass. 8 marzo 2001, Zavattaro, ([24]) secondo cui, per andare esente da responsabilità in ordine al reato di cui all’art. 5, lett. h), il rivenditore all’ingrosso di prodotti alimentari ortofrutticoli (nella specie, zucchine contenenti un antiparassitario in quantità superiore a quella consentita), se non può eseguire tutti i controlli analitici del caso trattandosi di prodotti facilmente deperibili, è tenuto a richiedere al titolare del processo produttivo idonee attestazioni sull’indennità dei medesimi dalle sostanze nocive, non essendo sufficiente che si basi esclusivamente sul rapporto fiduciario col produttore e sul fatto che non si siano mai verificati inconvenienti.
IV. Nel contesto della problematica che stiamo esaminando, un delicato problema riguarda la responsabilità del vertice dell’impresa alimentare quando la condotta materiale dell’illecito sia ascrivibile ad un soggetto formalmente incaricato dalla direzione o, più in generale, sia attribuibile ad un dipendente dell’impresa.
Anche in relazione a questo profilo, non si deve ricorrere ad inaccettabili presunzioni di colpa e quindi non si potrà prescindere dall’esame del modello organizzativo adottato per la prevenzione dei reati: la responsabilità per il fatto illecito potrà perciò essere spostata verso l’alto, anziché essere addebitata al preposto che ha male agito, se, in base ad un’indagine, da svolgersi caso per caso, che tenga cioè conto, ad esempio, delle dimensioni della struttura aziendale, della complessità del ciclo produttivo, della speciale difficoltà tecnica del controllo, delle misure messe a punto per verificare il regolare svolgimento dell’incarico, sia individuato il comportamento che, in concreto, il garante avrebbe dovuto osservare per impedire che il delegato o l’incaricato violasse la legge.
Le decisioni che seguono sono accomunate dal rilievo che i soggetti destinatari di obblighi penalmente sanzionati vengono spesso a trovarsi nell’oggettiva impossibilità di far fronte ai molteplici adempimenti che su di loro gravano. Il che pone il delicato problema di chiarire a quali condizioni si possa ravvisare la responsabilità penale del rappresentante dell’impresa senza attribuirgli il fatto a titolo di responsabilità obiettiva o per fatto altrui.
In primo luogo, si cita la sentenza 15 giugno 2006, P.m. in c. Truzzi ([25]) secondo cui non può addossarsi al dirigente centrale di una cooperativa operante nel settore della ristorazione, avente circa cinquecento unità locali distribuite sul territorio nazionale, la responsabilità per le infrazioni alla l. n. 283 del 1962 riscontrate nelle singole strutture locali se da parte del dirigente sia stato predisposto e continuamente aggiornato il «manuale di controllo» relativo a tutte le fasi produttive (in questo documento, tra l’altro, si prevedeva che gli operatori fossero tenuti a compilare un’apposita modulistica per certificare l’avvenuto controllo di tutte le fasi operative) e se a ciascuna unità sia stata preposta una persona fornita di competenze specifiche avente un rapporto di stretta vicinanza spaziale con il luogo da controllare (nella specie, in uno dei ristoranti facenti capo alla cooperativa veniva rinvenuto, all’interno di un frigorifero, un alimento in stato di alterazione per la presenza di Listeria monocytogenes).
In secondo luogo, anche la sentenza 22 febbraio 2006, Auletta ([26]) afferma che non può essere richiesto all’amministratore delegato di una società con stabilimenti sparsi in Italia ed all’estero, che abbia nominato preposti ai singoli stabilimenti o settori, di procedere ad un continuo e penetrante controllo di tutti gli stabilimenti per verificare l’osservanza delle condizioni igieniche perché a tanto devono provvedere i preposti (nella specie, a seguito del rinvenimento di latte risultato difettoso per la presenza di coliformi totali, il legale rappresentante di una società, che aveva preso in appalto la gestione del servizio di ristorazione di una clinica, era stato condannato, nonostante fosse documentato il conferimento ad altro soggetto di una delega di funzioni per gli adempimenti relativi al rispetto della l. 283/62).
È allineata ai principî generali in materia di colpa, Cass. 10 gennaio 2007, n. 6407, Leuzzi, inedita, che, nel confermare la responsabilità di un soggetto che aveva omesso d’individuare gli organi tenuti ad effettuare determinati adempimenti, ha osservato che l’omissione del legale rappresentante della società, cui spettava il controllo complessivo sull’organizzazione amministrativa e gestionale dell’ente, non configurava un’ipotesi di responsabilità oggettiva.
Anche Cass. 6 febbraio 2007, n. 10897, Carfagna, inedita, ha ribadito il principio secondo il quale il titolare dell’impresa risponde sempre delle violazioni di legge salvo che non sia stato nominato un preposto: è tuttavia necessario che risulti, al di là di ogni ragionevole dubbio, che ad uno o più settori sia stato concretamente designato un preposto con un formale atto di delega da cui si possa desumere l’esatta indicazione dell’incarico devoluto, con la relativa autonomia gestionale e operativa, e purché sia provata l’idoneità della persona chiamata a svolgere quel tipo di mansioni.
In tema di responsabilità per la vendita di sostanze alimentari all’interno di un ipermercato, Cass. 8 aprile 2008, Melidei ([27]), ha stabilito che destinatario delle disposizioni impartite dal piano di autocontrollo relative alle attività di controllo e vigilanza preliminari alla messa in vendita del prodotto è il responsabile del relativo reparto, soggetto su cui grava anche l’obbligo di sorvegliare i sottoposti circa l’osservanza delle disposizioni medesime.
V. Uno sguardo alle più recenti decisioni in tema di colpa nei reati alimentari.
Cass. 9 dicembre 2009, Panati, n. 5609, in un caso in cui oggetto della contestazione era la detenzione per la vendita di tonno decongelato in stato di alterazione per la presenza di monossido di carbonio, ha rilevato che tale additivo, utilizzato per la conservazione del tonno, non era autorizzato da alcuna disposizione in materia: ma, a parte ciò, la presenza di tale sostanza alterava di per sè la composizione naturale del prodotto, donde la sussistenza del reato indipendentemente dalla sua nocività.
Il passaggio che ci lascia un po’ perplessi è nella parte in cui si legge «Tale alterazione ben doveva essere presunta, atteso che il tonno proveniva dalla Thailandia tramite l’Olanda, per cui il suo decongelamento doveva necessariamente far presumere l’uso dell’additivo, altrimenti si sarebbe avariato, dato il tempo intercorso dalla spedizione ed i successivi passaggi: e proprio nel ricorso si precisava che il prodotto doveva essere consumato entro dieci giorni dal confezionamento (in Thailandia). Infine, il Panati era il legale rappresentante della società ultima cessionaria, per cui non poteva ignorare, per i motivi di cui sopra, che la conservazione della notevole quantità di tonno decongelato in Thailandia era assicurata dall’uso di additivi che modificavano la sua composizione naturale, a parte che, come dichiarato dai testi Lisi e Galligani, non esisteva alcuna direttiva interna in materia di controlli e mai erano state eseguite verifiche sulla merce: direttive che spettava al Panati di impartire nella sua qualità, si occupasse o meno solo dell’asserito ed indimostrato aspetto finanziario».
In un analogo caso (importazione di tonno decongelato contenente monossido di carbonio, acquistato preconfezionato sotto vuoto da società spagnola che, a sua volta, l’aveva importato dal Vietnam), Cass. 25 marzo 2010, Fourrier ([28]), ha concluso che un importatore, sia esso un commerciante all’ingrosso o al dettaglio, è tenuto a verificare la conformità del prodotto o dei componenti di esso alla normativa sanitaria con controlli tali da garantire la qualità del prodotto anche se importato in confezioni originali. La Corte ha poi affermato che tale obbligo incombeva sulla ricorrente sia perché l’alimento era stato prodotto in Vietnam sia perché erano chiaramente percepibili gli effetti dell’additivo per l’innaturale colorazione rosso ciliegia del tonno ed ha escluso l’applicabilità dell’esimente speciale di cui all’art. 19 invocata dall’importatore.
Cass. 9 giugno 2010, n. 28714, Gusparo, (in una fattispecie di violazione dell’art. 5, lett. d) per detenzione per l’impiego e per la successiva commercializzazione di farina invasa da parassiti) ha stabilito che «sia onere del produttore accertare la “purezza” delle materie impiegate. Per escludere la responsabilità nelle contravvenzioni è necessario che l’imputato provi di aver fatto quanto era possibile per osservare la legge e che quindi nessun rimprovero può essergli mosso neppure per negligenza o imprudenza» ed ha concluso «Con argomentazioni non censurabili sul piano logico, il Tribunale ha, da un lato, evidenziato che l’imprenditore è tenuto a prevenire i rischi di contaminazione mediante l’adozione di efficaci misure di controllo (ad es. frequenti analisi su un adeguato numero di materie prime) e, dall’altro che non risultava che tali misure fossero state poste in essere».
Per Cass. 12 gennaio 2010, Montella, [29], in un caso di merce prodotta per essere destinata al mercato degli Stati Uniti, l’integrazione della fattispecie criminosa non necessita della consegna del prodotto, in quanto il reato si consuma nel momento in cui la sostanza alimentare viene preparata e confezionata, pronta per essere consegnata (nella specie si trattava di mozzarella di bufala etichettata come tale, ma contenente, in realtà, latte di vacca in misura superiore al 50% e la Corte ha stabilito che integra l’elemento soggettivo colposo la mera negligenza nelle dovute verifiche sulla conformità alla normativa del prodotto alimentare preparato o detenuto per la vendita).
Nella stessa scia, Cass. 25 marzo 2010, Di Mauro, [30], ha affermato che i reati in materia di alimenti sussistono anche quando sia avvenuto il ritiro del prodotto non in regola con le norme igienico-sanitarie, ma già preparati e distribuiti per il consumo, in quanto detti reati si perfezionano anche con la sola preparazione e distribuzione per il consumo, e Cass. 25 marzo 2010, Seravini, [31], in tema di detenzione per la vendita di prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione, ha statuito che integra il reato la condotta consistente nella materiale disponibilità di quel prodotto da parte dell’operatore commerciale, sia esso grossista o dettagliante, in vista della fornitura ai consumatori (la Corte ha disatteso la tesi difensiva secondo cui mancava la prova della destinazione alla vendita degli alimenti, trovati abbandonati in evidente cattivo stato di conservazione all’interno di un automezzo, il cui impianto di refrigerazione era disattivato, parcheggiato nei pressi del deposito di generi alimentari all’ingrosso, di cui era titolare l’imputato).
Infine, secondo Cass. 22 giugno 2010, Cristella, [32], integra il reato di somministrazione di sostanze alimentari insudiciate la fornitura di sostanze alimentari, sporcati dalla presenza di insetti, in particolare di mosche, in quanto è sufficiente ad inficiarne l’integrità alimentare con conseguente pericolo concreto per la salute pubblica (nella specie era stata rinvenuta una mosca morta all’interno di una porzione di pesce e patate fritte, confezionata in un piatto di plastica, somministrata a mensa agli alunni di una scuola elementare).
[1] Per l’affermazione che le contravvenzioni alla l. 283/62 integrano un reato di pericolo presunto, v. ad esempio, Cass. 16 dicembre 2005, Alvisini, Dir. e giur. agr. e ambiente, 2007, 186; Cass. 27 aprile 2004, Bracciolano, Dir. e giur. agr. e ambiente, 2006, 48; Cass. 16 dicembre 2003, Gargelli, Guida al dir., 2004, fasc. 22, 81.
[2] Foro it., 2002, II, 217.
[3] A chiarimento del pensiero contenuto in quest’ultima decisione, la giurisprudenza successiva (Cass. 7 luglio 2004, Cicolella, Ced Cass., rv. 229392 e 22 febbraio 2006, Mastromartino, Ced Cass., rv. 233566) ha precisato che il reato in questione può essere qualificato quale reato di danno a condizione che s’individui nell’interesse protetto dalla norma quello del rispetto del c.d. ordine alimentare, ovvero quello del consumatore a che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura.
Da ultimo, v. Cass. 9 gennaio 2007, Bertini, Foro it., 2008, II, 348, che tra l’altro scrive «il giudice ha basato la sua decisione proprio, per così dire, sulla presunzione di una presunzione, in quanto in realtà ha omesso di accertare se la concreta modalità di conservazione del prodotto era realmente idonea a dar luogo ad un pericolo di alterazione del prodotto, ma ha soltanto presunto tale idoneità». In questa ottica è perciò necessario accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare il pericolo di un danno per la salute o il pericolo di un deterioramento del prodotto.
[4] Cass. 26 novembre 2003, Barion, Foro it., 2005, II, 282; Cass. 7 marzo 2000, Melloni, Foro it., 2001, II, 363.
[5] In questo senso, v. Cass. 2 ottobre 2007, Consiglio, Ced Cass., rv. 238661, per cui il delitto assorbe il meno grave reato contravvenzionale.
[6] V. Cass. 23 settembre 2004, n. 41106, Molendino, inedita; Cass. 7 giugno 2005, Disperso, Ced Cass., rv. 232228; Cass. 17 gennaio 2007, Valastro, Ced Cass., rv. 235904.
[7] Si ricorderà l’orientamento formatosi negli anni ’80 in tema di detenzione per la vendita di alimenti con termine di conservazione superato secondo il quale ricorreva la contravvenzione di cui all’art. 5, lett. b), quando il commerciante al dettaglio deteneva prodotti alimentari oltre il termine minimo di conservazione apposto in etichetta dal produttore. Sicché l’offesa al bene protetto finiva per essere provata in base all’automatismo tra alterazione dell’alimento e superamento del suo termine di conservazione senza indagare se l’alimento versasse in concreto in condizioni irregolari. Le sezioni unite della Cassazione 27 settembre 1995, Timpanaro, Foro it., 1996, II, 220, hanno però chiarito che è del tutto improponibile configurare la contravvenzione di cui trattasi nell’ipotesi di detenzione per la vendita di generi alimentari recanti un termine minimo di conservazione scaduto, espresso tanto con la dicitura «da consumarsi preferibilmente entro il . . .», quanto con la dicitura «da consumarsi entro il . . .»).
[9] In questo senso è significativa la pronuncia che segue: in un caso in cui il Tribunale aveva condannato due soggetti per il reato di cui all’art. 5, lett. d) per avere distribuito per il consumo in occasione di una manifestazione porzioni di merluzzo in stato di alterazione o comunque contaminate da salmonella, che causava la tossinfezione di 39 persone, Cass. 19 maggio 2010, Ghidella, n. 27051, ha annullato l’impugnata sentenza, che aveva dato atto che non era possibile ritenere con certezza se la salmonella fosse presente nel merluzzo, o se da essa fossero affette una o piu’ persone addette alla manipolazione del cibo, ma che comunque l’infezione era attribuibile agli imputati per l’inosservanza delle norme igieniche, tra cui la mancanza nel locale delle attrezzature volte a evitare patologie del genere, ritenendo che «il reato cosi’ come contestato riguardava la distribuzione per il consumo di merluzzo alterato o comunque contaminato da salmonella, per cui, in mancanza di individuazione della causa diretta che aveva causato l’intossicazione di ben 39 persone, questa Corte ritiene che manchi la prova della certa attribuzione agli imputati della responsabilita’, che andava individuata previa concreta verifica delle singole possibili cause e non in base a presunzioni probabilistiche, non potendosi escludere, ad esempio, che uno di manipolatori ne fosse stato affetto proprio in quell’occasione, donde l’ininfluenza delle norme igieniche per evitare il contagio ad altri colleghi, trattandosi di preparazione diretta del cibo».
[10] Si tratta di regole già dettate dal d.leg. 26 maggio 1997 n. 155 che prescriveva che il responsabile dell’industria debba accertare ogni fase della propria attività che potrebbe rivelarsi critica per l’igiene degli alimenti e deve garantire che siano applicate ed aggiornate le adeguate procedure di sicurezza avvalendosi dei principî su cui è basato il sistema di analisi dei rischi e di controllo dei punti critici Haccp. V. attualmente sull’argomento il d.leg. 6 novembre 2007 n. 193, attuazione della direttiva 2004/41/CE relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo settore, che ha introdotto apposite sanzioni amministrative per l’operatore del settore alimentare che omette di predisporre procedure di autocontrollo basate sui principi del sistema HACCP.
[11] Il discorso vale in particolar modo per gli alimenti facilmente deperibili, ma si estende anche per quelle sostanze alimentari che possiedono specifiche caratteristiche organolettiche e altre qualità tipiche che potrebbero essere compromesse dalla necessità di eseguire minuziosi e continui controlli.
[12] Cass. 19 giugno 1998, Panseri, Foro it., 1999, II, 178, ha infatti ritenuto che la responsabilità sussiste tutte le volte in cui il cattivo stato di conservazione del prodotto possa essere accertato con controlli a campione facilmente eseguibili (nella specie, mediante l’eviscerazione dei pesci) e non è esclusa dalla previsione legislativa di una serie di controlli attribuiti ad organi tecnici.
[13] In Foro it., 1999, II, 177: Quando un prodotto alimentare sia prodotto e confezionato all’estero, l’importatore che opera sul territorio nazionale è tenuto a verificare, prima del compimento di qualsiasi atto di commercio, la conformità del prodotto ai requisiti stabiliti dalla normativa interna ricorrendo, quantomeno, all’analisi a campione del medesimo (nella specie, la corte ha annullato, per carenza dell’elemento soggettivo, la sentenza di condanna di un importatore rilevando che costui, se anche avesse sottoposto ad analisi a campione il prodotto importato, che presentava il rischio di contaminazione da parassiti, non avrebbe comunque potuto evitare la messa in commercio di due sole «barrette» di un prodotto dolciario in cui era stata riscontrata l’irregolarità).
[14] La cui posizione giuridica è equiparabile a quella del produttore. Ricordiamo infatti che l’importatore deve sempre accertare la regolarità dei prodotti commercializzati anche se in confezioni originali. Sulla nozione di prodotti alimentari in «confezione originale», v. Cass. 13 maggio 1999, Nerbi, Ced Cass., rv. 214654 (per confezione originale deve intendersi ogni recipiente o contenitore chiuso, destinato a garantire l’integrità originaria della sostanza alimentare da qualsiasi manomissione e ad essere aperto esclusivamente dal consumatore di essa); in argomento, v. Cass. 12 luglio 2007, Mongiovì, Ced Cass., rv. 237392; 11 luglio 2006, Sciacovelli, Riv. trim. dir. pen. economia, 2007, 399.
[15] Amodio, Modalità di prelevamento di campioni e diritto di difesa nel processo per frodi alimentari, in Problemi penali in tema di frodi alimentari, Milano, 1971, 188.
[17] Foro it., 2010, II, 195.
[18] Dalla lettura della sentenza non emerge però con chiarezza se la vicenda riguardasse un commerciante all’ingrosso – come si potrebbe opinare tenendo conto che l’imputato aveva acquistato il prodotto direttamente dal produttore – o al dettaglio.
[19] Ced Cass., rv. 245264.
[20] Foro it., 2007, II, 543.
[21] Foro it., 2007, II, 543.
[22] Foro it., 2007, II, 347.
[23] Foro it., 2008, II, 624.
[24] Foro it., 2001, II, 506.
[25] Foro it., 2007, II, 24.
[26] Foro it., 2007, II, 24.
[27] Ced Cass., rv. 240045.
[28] Ced Cass., rv. 247487.
[29] Ced Cass., rv. 246810.
[30] Ced Cass., rv. 247489.
[31] Ced Cass., rv. 247488.
[32] Ced Cass., rv. 248489.