articolo comparso sulla rivista BancaFinanza, luglio-agosto 2016.
Con la recente sentenza n. 11442/2016 la Corte di Cassazione ha affrontato vari profili problematici della disciplina della responsabilità dell’ente dipendente da reato, tra cui la tematica della competenza dell’Autorità italiana a giudicare per reati commessi all’estero e quella della idoneità del modello organizzativo.
In estrema sintesi, va premesso che la Corte di appello di Milano, con sentenza del 19 febbraio 2015, aveva confermato la sentenza del Tribunale di Milano con cui la società per azioni Saipem era stata ritenuta responsabile per violazione del d. lgs. 231/2001, in relazione alla commissione del reato di corruzione internazionale da parte di soggetti che rivestivano ruoli apicali in Snamprogetti s.p.a., società incorporata in Saipem nel 2006. Il Tribunale, in primo grado, aveva applicato nei confronti della suddetta società la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 600.000, nonché la confisca dell’importo del profitto del reato, nella misura di euro 24.530.580.
I reati contestati alle persone fisiche (tutti prescritti) erano consistiti nella promessa e poi nell’effettiva corresponsione da parte della joint venture, denominata TSKJ (acronimo delle società partecipanti: la francese Technip, la italiana Snamprogetti, la statunitense Kellogg e la nipponica Japan Gas Company), di compensi corruttivi per oltre centottantasette milioni di dollari in favore di pubblici ufficiali nigeriani posti al massimo livello (i Presidenti della Repubblica di Nigeria succedutisi nel tempo) e anche a livello minore, al fine di ottenere contratti del valore complessivo di circa 6 miliardi di dollari per la realizzazione di un impianto di liquefazione del gas naturale nell’area di Bonny Island in Nigeria. L’attività corruttiva aveva avuto inizio sin dal 1994, con l’avvio della joint venture, e si era protratta sino a tutto il 2004.
Con ricorso in Cassazione i difensori della Saipem s.p.a hanno sollevato, tra l’altro, il problema relativo alla competenza dell’Autorità Giudiziaria italiana a giudicare: come si evince dal capo di imputazione, infatti, tutte le condotte reato imputate alle persone fisiche risulterebbero integralmente commesse all’estero (la joint venture era stata costituita all’estero, le società operative avevano sede all’estero, l’aggiudicazione dei contratti era avvenuta in Nigeria, i consigli di amministrazione della società di cui faceva parte Snamprogetti Netherlands, si erano svolti all’estero, nessun pagamento in uscita o in entrata riguardante le operazioni contestate è transitato dall’Italia, nessun accordo corruttivo è avvenuto in Italia).
Altro motivo di doglianza concerneva la ritenuta inadeguatezza del modello organizzativo, giudicato totalmente inefficace dai giudici di merito a prevenire il reato di corruzione internazionale.
Entrambi i motivi di ricorso sono stati ritenuti infondati.
Quanto alla competenza a giudicare di un reato commesso all’estero, la Corte di Cassazione ha osservato che i Giudici di merito avevano accertato come una parte dell’attività corruttiva venisse pianificata in Italia, dove venivano adottate tutte le decisioni strategiche ed organizzative. È principio consolidato, hanno osservato i Giudici di legittimità, che, ai fini della punibilità dei reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, che sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero. A tal fine è stata ritenuta sufficiente l’essersi verificata in Italia anche la sola ideazione del delitto, quantunque la restante condotta sia stata attuata all’estero.
Per quel che riguarda il giudizio di idoneità del modello, è stato rilevato che le Sezioni Unite con la sentenza n. 38343/2014 hanno chiarito come, in tema di responsabilità dell’ente derivante da persone che esercitano funzioni apicali, grava sull’ente l’onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Ciò premesso, è stato osservato che nel caso in esame il c.d. modello 231, approvato dalla Snamprogetti s.p.a. nel giugno 2004, era – secondo quanto ricostruito dai giudici d’appello – gravemente carente, avendo predisposto misure preventive solo «sulla carta» e senza alcun tipo di garanzia in grado di impedire o, quantomeno, di rendere più difficile la partecipazione dei rappresentanti di Snamprogetti s.p.a. alla complessiva corruzione attuata per aggiudicarsi i vari lotti (quali, il comitato di controllo, l’internal audit, ecc.).
Per tali ragioni, esso non poteva che rivelarsi inadeguato agli scopi per cui stato adottato: non basta, insomma, dotarsi di un modello organizzativo, ma bisogna attentamente attuarlo.