di Dott. Matteo Ferrione
Articolo comparso sulla rivista BancaFinanza, rubrica Sentenze Recenti (ottobre 2017).
Con un recentissimo arresto la Suprema Corte di Cassazione (Sez. II, n. 30265/2017) è intervenuta a dirimere un contrasto interpretativo sorti in punto qualificazione della condotta di versamento e incasso di assegni – provenienti da un precedente delitto – presso un istituto di credito: in particolare il Supremo Collegio ha chiarito in quali casi si debba ritenere integrato il delitto di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.), anziché quello – meno grave – di ricettazione (art. 648 cod. pen.).
Il caso esaminato ricalca esattamente i contorni tipici delle ipotesi “di scuola” nell’ambito dell’illecita monetizzazione di titoli di credito: agli imputati veniva infatti contestato di aver contraffatto e poi depositato (su conti correnti appositamente aperti con nominativi fasulli) una serie di assegni bancari provento di furto, cosicché gli stessi potessero essere successivamente riscossi. In particolare, fra i diversi soggetti coinvolti, alcuni contraffacevano gli assegni bancari rubati, modificando il nome del destinatario, mentre altri provvedevano ad aprire i conti correnti presso diversi istituti di credito mediante l’utilizzo di false generalità e falsi documenti, quindi vi versavano gli assegni. Venivano, poi, effettuati i prelievi da detti conti del danaro “pulito”, avendo questo perso ogni collegamento con la sua provenienza illecita.
L’illecito profitto che ne conseguiva in capo ai complici era dunque quello corrispondente agli importi degli assegni rubati e poi incassati. Attività, questa, che nel suo complesso era stata ritenuta qualificabile – nelle Sentenze di merito – come delitto di riciclaggio, in quanto finalizzata ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa degli stessi assegni: ciò che ha consentito la “ripulitura” del denaro corrispondente.
Sul punto, la Cassazione precisa che la peculiarità del delitto di riciclaggio (che lo distingue da quello, meno grave, di ricettazione) consiste nella particolare capacità della condotta di ostacolare l’identificazione della provenienza del bene riciclato, ovverosia proprio l’operazione di “ripulitura”, che impedisce di identificare la provenienza delittuosa del denaro, beni o altra utilità; per converso, nel delitto di ricettazione, il soggetto si limita a ricevere la cosa di provenienza delittuosa, al fine di trarre per sé o altri un profitto, senza modificarla e “ripulirla” dalle possibili tracce della propria illecita provenienza.
Di tali principi la Suprema Corte fa applicazione anche nel caso in esame, in tema di assegni trafugati. Due sono, infatti, i possibili scenari: ove l’imputato si limiti a versare sul proprio conto corrente assegni di provenienza illecita, previa sostituzione delle generalità del beneficiario con le proprie ed apposizione della propria firma “girata” (senza contraffazione della banca emittente o del numero di serie), la condotta va qualificata come ricettazione, essendo la provenienza illecita del titolo facilmente riscontrabile dall’istituto di credito mediante sistemi di verifica interna.
Al contrario, integra il reato di riciclaggio il compimento di operazioni volte – come nel caso in esame – anche a solo ad ostacolare o rendere più difficoltoso l’accertamento della provenienza del denaro: tale finalità era, appunto, propria dell’articolato meccanismo architettato dai diversi compartecipi nel reato finalizzato ad ottenere la disponibilità di denaro ‘pulito’ attraverso il successivo prelievo.
Vale la pena, infine, segnalare, che in simili circostanze non appare remota la configurabilità di un concorso nel reato del dipendente dell’istituto di credito, ogniqualvolta questi si presti – consapevolmente – con un proprio apporto concorsuale (attivo o omissivo) ad agevolare le operazioni di versamento e successivo prelievo del denaro riciclato.